Omicidio Di Bona, Cassazione conferma ergastoli «Ce l’abbiamo fatta, finalmente un po’ di giustizia»

Ergastolo: la Cassazione di Roma conferma la pena stabilita nei precedenti gradi di giudizio per i boss Salvatore Lo Piccolo e Salvatore Liga, i killer del maresciallo della polizia penitenziaria Calogero Di Bona. Una sentenza giunta in serata ieri, dopo molte ore di camera di consiglio, e che finalmente mette la parola fine, a livello processuale, sulla vicenda. «Ce l’abbiamo fatta, era quello che volevamo: giustizia», commenta a caldo Giuseppe Di Bona, figlio del maresciallo ucciso da Cosa nostra. Ci sono voluti ben 38 anni, tante indagini ma anche qualche colpo di fortuna. La svolta decisiva, infatti, si deve proprio a Giuseppe, che nel 2010, navigando in rete trova per caso un verbale risalente al 1994 all’interno di una sentenza contro Bruno Contrada in cui si parla proprio del padre.

A farlo è il pentito Gaspare Mutolo: ai magistrati racconta che Di Bona era stato sequestrato e ucciso, strangolato e poi bruciato in un forno crematorio che i mafiosi utilizzavano, in un terreno nella zona residenziale di Città Giardini. Il pentito, si leggeva in quel verbale, accusava del delitto i boss Salvatore Lo Piccolo Salvatore Liga. Del maresciallo in servizio all’Ucciardone, infatti, non era emersa mai alcuna traccia. A essere ritrovata era stata solo l’auto, una Fiat 500 abbandonata con gli sportelli aperti nei pressi del ponte di via Belgio, a pochi giorni dalla scomparsa. Il primo a indagare sulla strana sparizione era stato il giudice Rocco Chinnici, ma le indagini si arrestano brutalmente nell’83, subito dopo l’assassinio del magistrato.

Chinnici, però, lascia per iscritto un suggerimento prezioso: «i motivi della scomparsa del maresciallo Di Bona erano da ricercare tra le mura del carcere Ucciardone di Palermo. La riprova di ciò si ritrova nelle modalità di esecuzione del crimine, tipicamente mafiose». Il movente ricostruito dagli agenti della Dia si lega a doppio filo infatti al luogo di lavoro della vittima. L’omicidio sarebbe scaturito dal pestaggio subito da un collega del maresciallo: Michele Micalizzi, genero del boss di Partanna-Mondello Saro Riccobono, picchia violentemente un agente all’interno del carcere, dove era detenuto per omicidio. I termini di custodia però stavano per scadere e la segnalazione di questo episodio avrebbe potuto trattenerlo ulteriormente e impedirgli di tornare in libertà. Soprattutto perché c’era un altro funzionario che ha messo nero su bianco in una relazione tutto quello che era accaduto, il maresciallo Di Bona, che in questo modo avrebbe attirato su di sé un piano di vendetta. «A noi rimane solo la memoria da divulgare. Queste sono storie che vanno raccontate e tenute in vita», aveva detto a MeridioNews il figlio Giuseppe, intervistato a gennaio. Lui, da anni ormai volontario tra le fila di Libera, l’associazione fondata da Don Ciotti, ha trovato nel ricordo e nella divulgazione un modo per andare avanti.

Silvia Buffa

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