Condannati a 24 anni di carcere e al pagamento di 250mila euro. Si tratta dei due uomini afghani accusati dell’omicidio di Maria Grazia Cutuli, giornalista catanese e inviata del Corriere della Sera. Assassinata in Afghanistan il 19 novembre 2001, mentre si trovava nel distretto di Surobi. Gli imputati, Mahmur Gol Feiz e Zar Jan, difesi dagli avvocati Francesco Cutrona e Valentina Bevilacqua, hanno ascoltato la lettura del dispositivo di primo grado, emesso dalla prima sezione della Corte d’assise di Roma presieduta dal giudice Vincenzo Capozza, collegati in video conferenza.
Entrambi si trovano detenuti nello Stato asiatico perché già ritenuti colpevoli in patria, dove stanno scontando, rispettivamente, 16 e 18 anni di carcere. La requisitoria, affidata alla magistrata Nadia Plastina, aveva chiesto 30 anni di reclusione. «I delitti per cui si procede – spiegava durante l’udienza la pm – sono stati qualificati come politici, e la normativa consente di rinnovare questo processo in Italia». Mahmur e Zar Jan sono accusati di concorso in rapina e concorso in omicidio.
Secondo la ricostruzione degli inquirenti i due imputati, insieme ad altre persone mai identificate, rubarono alla giornalista, dopo averla uccisa, la macchina fotografica, un computer e la radio. Insieme all’inviata del Corriere morirono Julio Fuentes, inviato spagnolo di El Mundo, e due giornalisti dell’agenzia Reuters: Harry Burton e Azizullah Haidari. Gli elementi raccolti, per la rappresentante dell’accusa, hanno consentito di accertare che «è stato realizzato un piano organizzato per un bottino. È stata un’azione audace e clamorosa. Mahmur ha confessato e ha tirato in ballo Zar Jan. Valutando tutti gli elementi che abbiamo, l’unica ricostruzione possibile è che i due sono i responsabili dei delitti loro contestati, oltre ogni ragionevole dubbio». «Un fatto così grave non poteva accadere se non ad opera di soggetti che facevano parte di quel distretto. Già attivi in formazioni paramilitari, naturalmente contrari alla presenza di Occidentali», continuava la magistrata.
A parlare, dopo la lettura del dispositivo, è stata anche l’avvocata Caterina Malavenda, rappresentante del gruppo editoriale Rcs del Corriere della Sera. «Avere una sentenza in Italia non restituisce Maria Grazia alla famiglia, ma è di conforto per i parenti perché almeno sanno che lo Stato c’è». L’agguato, avvenuto a poche settimane di distanza dall’attentato alle Torri gemelli, venne realizzato lungo una strada che dalla provincia di Surobi conduceva alla capitale Kabul. La giornalista etnea, insieme al resto della compagnia, si trovava a bordo di una Toyota Corolla alla testa di un convoglio di mezzi. Il gruppo venne bloccato nei pressi di un ponte, con i reporter obbligati a scendere e condotti a distanza dall’arteria principale, per poi essere uccisi a colpi di kalashnikov.
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