«Una freca di cose che proprio io ho pigliato e poi ne ho stracciato». È il 21 febbraio 2008 quando Guido Paolilli dice questa frase al figlio, seduto di fianco a lui. Una frase che oggi, però, davanti ai giudici di Palermo ha negato di aver mai detto in riferimento al duplice omicidio di Villagrazia di Carini. E non è nemmeno la prima volta. Collega e amico dell’agente di polizia Nino Agostino, ucciso il 5 agosto ’89 insieme alla moglie Ida Castelluccio, fu tra i primi a indagare su quel delitto. È lui che perquisisce la casa dei coniugi assassinati, distruggendo alcuni importanti documenti ritrovati in un armadio. Un gesto accertato in sede giudiziaria ma prescritto, per il quale adesso la famiglia Agostino chiede un risarcimento, citando in giudizio proprio l’ex agente Paolilli. Che questa mattina ha fatto il suo ritorno in un’aula di tribunale.
Lui è uno dei fedelissimi che Arnaldo La Barbera sceglie per indagare sull’omicidio – prediligendo la pista passionale -, richiamandolo a Palermo, dal momento che da alcuni anni prestava servizio alla questura di Pescara. È uno di quelli che fa proprio quanto lasciato detto dallo stesso Nino Agostino, «se mi succede qualcosa cercate nell’armadio di casa». In quell’armadio a cercare indizi ci sono, andando indietro di oltre 30 anni, le mani di quell’amico e collega tornato apposta. Che avrebbe trovato in effetti qualcosa, distruggendola però. Dice questo al figlio, pronunciando quella famosa frase intercettata. I due sono in casa davanti alla tv, la loro attenzione viene attirata dalla presenza in una trasmissione dei genitori di Nino Agostino, che stanno parlando proprio dell’omicidio del figlio, raccontando non solo il dettaglio dell’armadio ma anche che nell’ultimo periodo lui si sentiva come pedinato, in pericolo. Ed è quella la risposta che Guido Paolilli dà al figlio, quando si rivolge al padre e gli chiede cosa ci fosse dentro quell’armadio.
Oggi, però, sentito in interrogatorio formale nega di aver detto quella frase. Anzi, nega di essersi riferito a Nino Agostino, al suo armadio, alle sue carte, al suo omicidio. «Non mi riferivo a quello», ha detto più volte l’ex agente in aula. La «freca di cose» distrutte non sarebbero state né di Nino Agostino né si sarebbero trovate nell’armadio di casa delle vittime. «Non erano cose importanti, riguardavano alcune carte che erano contenute in uno sgabuzzino di casa mia». E tira in ballo la relazione di servizio sulla perquisizione avvenuta in casa Agostino. Relazione che, secondo l’ex poliziotto, gli sarebbe poi stata sequestrata durante una perquisizione. Il giudice si è riservato sulla richiesta di ammissione ai mezzi istruttori perché ci sarebbero da sentire altri ulteriori testimoni, sia da parte attrice che da parte convenuta. Deciderà in seguito se proseguire con la prova testimoniale e, quindi, se continuare a sentire Paolilli.
Intanto, le accuse mosse contro di lui nel tempo sono andate prescritte. Ma la famiglia Agostino, adesso, chiede di saldare quel conto rimasto aperto col passato e calcolato nella somma di 50mila euro. Una pezza, non potrebbe mai essere nulla di più, per rimediare a quel depistaggio e a quel «furto di verità», per dirla con l’avvocato Fabio Repici, perpetrato per oltre 30 anni. Mentre, sul piano penale, qualcosa sembra a un punto di svolta. La procura generale è in procinto infatti di chiedere il processo per tre personaggi: due sono i boss Nino Madonia e Gaetano Scotto, quest’ultimo tornato in galera dopo il blitz di ieri, mentre il terzo sarebbe stato un giovane amico dell’agente ucciso, Francesco Paolo Rizzuto, che per la procura avrebbe assistito al delitto senza rivelare nulla di quella circostanza per tutto questo tempo.
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