Oltre l’8 marzo, una lingua per tutt*

«Il linguaggio è importante perché è il modo in cui percepiamo la realtà, usare una parola anziché un’altra vuol dire avere una percezione diversa». Laura Boldrini, 2015.

«L’uso di un termine anziché di un altro comporta una modificazione nel pensiero e nell’atteggiamento di chi lo pronuncia e quindi di chi lo ascolta». Alma Sabatini, 1987.

Quasi trent’anni e non sentirli. Proprio nel senso che da quell’orecchio non ci si sente. La lettera inviata dalla presidente della Camera Laura Boldrini alle deputate e ai deputati della Repubblica italiana per invitarli a un uso della lingua non declinato al maschile è stata accolta da critiche e polemiche. Tra queste, il sempreverde «ci sono problemi peggiori» che, pur non negando formalmente la questione, vorrebbe rimandarne indefinitamente la discussione. Nonostante le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, a cura della linguista Alma Sabatini, circolino ormai dal secolo scorso e facciano bella mostra di sé proprio sui sito governativi. Eppure ancora ingegnera suscita ilarità, mentre infermiera è parola serissima; ministra è brutto, maestra bellissimo. La poeta fa indignare uomini e donne. E dire che le regole – diffuse dall’Accademia della Crusca -, sono semplici. Proprio come quelle assimilate sui banchi di scuola. Per una parola che finisce in -o, – aio/-ario ce ne sono altrettante da far terminare in -a, – aia/-aria: non solo segretaria, ma anche architetta o sindaca. Per un consigliere c’è una consigliera, così come per un assessore c’è un’assessora. E ancora, per dei seri linguisti, non c’è stupore se un muratore ha per collega una muratrice. Nel caso poi di parole che terminano in -e/-a, basterà cambiare solo l’articolo: il vigile o la vigile, non fa differenza mentre contempliamo una multa. Eppure oggi la necessità sarebbe quella di andare ancora oltre. Ne discutiamo con Stefania Arcara, docente di Gender Studies dell’Università di Catania.

Quali sono secondo lei le principali resistenze ai cambiamenti linguistici?
«È ovvio che la lingua, le lingue, sono sempre cambiate nel tempo, altrimenti oggi parleremmo con le declinazioni latine. Alcune persone semplicemente non concepiscono la disobbedienza alle regole cristallizzate nel tempo dal cosiddetto prescrittivismo linguistico, cioè manuali di grammatica, dizionari e altri discorsi normativi. Altre sostengono si tratti di questione estetica (suona male): in realtà c’è una comprensibile resistenza al cambiamento, quando questo mette in questione i rapporti di potere che la lingua esprime e produce al tempo stesso. Scardinare il cosiddetto neutro maschile universale (Uomo = essere umano), che è alla base del nostro ordine simbolico e che nella lingua è diffuso ovunque, tra donne e uomini, dal burocratese ai centri sociali, è ancora un’impresa difficile». 

Molte attiviste e studiose italiane si stanno concentrando sulla necessità di declinare al femminile. Ma oggi sembra non bastare più. Penso ad esempio all’imbarazzo dimostrato nel parlare di chi non si riconosce in nessuna delle due categorie maschile-femminile. Come si può andare oltre nel linguaggio?
«Premesso che il 57 per cento delle lingue del mondo non ha pronomi con la marca di genere, senza la quale quindi è possibile benissimo esprimersi, nei paesi anglofoni alcune comunità hanno già elaborato una serie di indicazioni sull’uso dei pronomi di genere non-binari: per esempio, ze al posto di he/she, hir per his/her. Per le lingue romanze come l’italiano, uno di questi strumenti, per ora soltanto grafici, è l’asterisco, oggi usato da molt*, tra cui la sottoscritta. Un segno grafico simile è la chiocciola, @, quella dell’indirizzo email. Il loro uso è legato alla scrittura non cartacea e alla comunicazione virtuale ed è ampiamente diffuso nell’attivismo online femminista e queer». 

Qual è la differenza tra i due segni?
«La chiocciola, contenendo graficamente ciò che viene percepito in italiano come le vocali ao, esprimerebbe entrambi i generi. L’asterisco è una scelta radicale e spiazzante: rappresenta graficamente l’oltre rispetto al binarismo di genere. Non è solo sostitutivo di maschile e femminile, che ovviamente riemergono al momento di pronunciare la parola con l’asterisco, ma è molto di più. Nel linguaggio informatico dal quale proviene, l’asterisco è un metacarattere, un carattere jolly, che non rappresenta se stesso, ma una qualsiasi sequenza di caratteri che può stare al suo posto. E non sarà un caso che come carattere tipografico a livello testuale l’asterisco sia stato tradizionalmente impiegato per segnalare l’omissione o la censura di qualcosa di osceno o volgare, cioè di irrappresentabile». 

In che modo l’uso di questi segni può collegarsi al femminismo o alla teoria queer? Secondo lei l’asterisco ha un portata politica?
«Ho sentito dire a più di una donna, che si definisce femminista, che l’asterisco è “orribile” e a un bravissimo docente universitario sensibile alle questioni di genere che è “brutto”. Sarebbe il caso di indagare le ragioni profonde di tanta ostilità: l’asterisco è l’espressione linguistica di un cambiamento epistemologico riguardo il concetto di genere. È un’operazione di decostruzione. La teoria queer, che proviene anche da alcune filosofie femministe, ha messo in questione la naturalità del genere e il binarismo essenzialista ed eteronomativo che il sistema sesso-genere impone. L’asterisco in qualche modo esprime tutto ciò graficamente. Certo, chi lo usa spesso vuole soltanto abbreviare, per comodità: per esempio, anziché scrivere all’inizio di una email «cari colleghi, care colleghe» si può scegliere «cari/e colleghi/e», oppure ancora «car* collegh*». Molt* inorridiscono di fronte a una tale “mostruosità” grafica. C’è invece chi ci vede una bellezza politica, una carica rivoluzionaria, un piccolo gesto simbolico di libertà dalle gabbie del genere».

Claudia Campese

Giornalista Professionista dal 2011.

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