Oggi conoscere le culture ‘altre’ non è un optional

Gianni Morelenbaum Gualberto, il direttore artistico di EtnaFest, capitato all’improvviso sulla scena dell’organizzazione culturale cittadina, è un personaggio inafferrabile ma anche ubiquitario, e nel complesso leggermente sussultorio. Quando c’è, si muove svelto: tra una mezza dozzina di riunioni, la prova di un concerto, l’ansiosa messa a punto dei dettagli. Quando invece parrebbe rintanato nella sua Milano, lo trovi un po’ dappertutto sui forum telematici della Catania online. Gli habituées lo riconoscono dalla sigla: GMG, l’intransigente polemista (ridondante di citazioni colte). Forse è per questo che, anche se il concerto di Absolute Ensemble incombe, non si è fatto pregare.  Perché lui, Gianni Gualberto, al giornalismo online ci crede. E ci ha anche detto di credere nel pubblico giovane e nell’importanza di instaurare un rapporto di collaborazione con l’università. Noi di Step1 ci auguriamo che non ci si limiti soltanto alle parole. Chi ha da intendere intenda.

Sul sito di EtnaFest lei ha auspicato che l’eterogeneità degli artisti che compongono la Sezione Musica possa insegnare ad “affrontare la diversità, ad accoglierla, ad intavolare con essa un dialogo che implichi una costante crescita comune, senza vinti né vincitori”. Un tema particolarmente d’attualità.
Prima di tutto occorre dire che oggi, a parte rarissime zone, l’Italia ha un’enorme deficit di attività culturali. Non solo Catania, anche se devo dire che Catania ha fatto registrare un deficit non trascurabile negli ultimi anni. Diciamo che Catania estremizza la tendenza che c’è in Italia. Venendo alla domanda, penso che in un mondo globalizzato, dove anche i flussi migratori sono molto forti, molto specifici, il rapporto con le culture “altre” ci ha dimostrato che la cultura europea non è più centrale. Questa presunta centralità della cultura europea ci ha fatto chiudere occhi ed orecchie e bocca su una molteplicità di culture che esistono, alcune dagli stessi tempi della cultura europea se non addirittura antecedenti; che potevano avere un ruolo e invece sono state colonizzate, sfruttate, considerate esotiche, messe da canto. Dialogare con queste culture implica il trovarsi di fronte a persone che non conosciamo, che rischiamo di non saper interpretare, di sottovalutare, di accogliere male nel senso che il razzismo è sempre e comunque frutto di ignoranza. Conoscere le culture degli altri oggi non è neanche un fatto di arricchimento spirituale, è un obbligo. Non è un opzione. Questo succedeva prima, oggi è obbligatorio. Si tratta di conoscere meglio gli altri e accettare tutto ciò che di meglio gli altri hanno da darci. Questo vale anche per noi, perché la conoscenza ovviamente è sempre reciproca. Anche gli altri sanno cosa possiamo dare noi di buono e di negativo.
Oggi si parla del meticciato come una sorta di conversione: mi meticcio e dunque mi “rinuncio”, abbandono tutto ciò che avevo prima e abbraccio un’altra religione, un’altra cultura. Ma non è vero! Confrontarsi con la cultura ebraica non vuol dire mica circoncidersi ed andare in sinagoga, e confrontarsi con l’Islam non implica andare in moschea il venerdì e praticare il Corano, come incontrare la cultura europea non implica diventare cristiani. Oggi invece se ne fa un fatto religioso. Sembra che il meticciato implichi abbandonare tutto quello che abbiamo in favore di un’accettazione passiva, cieca, ma non è vero. Anzi è esattamente l’opposto. Il meticciato vive di un dialogo costante tra più identità, con tutto ciò che ne deriva, ma soprattutto permette di parlare con gli altri. Questa difesa a tutti i costi della propria cultura è un arroccamento che non serve assolutamente a nulla. Noi perdiamo l’arricchimento degli altri e gli altri perdono il nostro. Se in questo c’è una logica, io francamente non la vedo.

Pensa che questa “linea” sia l’elemento caratterizzante e permanente di EtnaFest?
Reputo che manifestazioni come EtnaFest dovrebbero avere un itinerario. Non credo alle manifestazioni effimere, che durano poco. Quando non ci sarò più io mi auguro che ci sarà qualcun altro e che la manifestazione vada alla lunga in modo da stabilire  un dialogo tra gli artisti locali e artisti di fuori. Manifestazioni come Etnafest sono importanti perché aprono gli occhi sul mondo, ma permettono anche al mondo di venire in Sicilia e di vedere che cos’è. Non nego che di recente ho avuto con un artista una sorta di battibecco [Non dice il nome, NdR] perché lui guardava la Sicilia con gli stereotipi classici tipo la mafia. Gli ho detto che non credo che tutti i siciliani siano mafiosi e che, se anche lo fossero, non avrebbero troppo tempo da perdere con uno che fa un concerti. Se vieni in Sicilia con l’idea che qui si ha ancora la coppola in testa e la lupara sotto la giacca, allora è meglio non venire. Però questo indica come ancora oggi circolino clichè, stereotipi e pregiudizi di vario tipo. La cultura permette proprio di abolire questi pregiudizi.

Dando un’occhiata al cartellone si nota subito la quasi totale assenza di musicisti italiani. Come mai questa scelta?
Guardi, si tratta di un percorso a tappe. Ho avuto modo di affrontare questo discorso con alcuni degli artisti “locali”, che lamentavano per l’appunto la loro esclusione. Innanzi tutto le dico subito che io non credo agli artisti “siciliani”, ma agli artisti tout-court. Certo, il siciliano è tra i pochi in Italia ad avere una tradizione specifica. In Italia esistono molti campanili, ma tradizioni specifiche meno di quanto si possa credere. Lo dico io che vivo al Nord, dove non esiste questa specificità di tradizioni che invece i siciliani hanno, anche a dispetto dei meridionali stessi.
Dicevo che ci dev’essere un processo a tappe perché, in questo mestiere, la botte piena e la moglie ubriaca non si può mai avere. Ho pensato innanzitutto ad affermare la manifestazione in un contesto dove francamente c’era un vuoto culturale. Non dico che non sia stato fatto nulla a Catania in tutti questi anni; ci sono state molte realtà locali, parlo del Centro ZO, delle manifestazioni del Brass, dell’associazione jazz di Pompeo Benincasa, ci sono state tante realtà che hanno fatto tantissimo, anche se a mio parere sono state un po’ disunite tra di loro. Negli ultimi anni però a Catania, direi dalla fine delle ottime estati catanesi di Enzo Bianco, c’è un vuoto culturale. Non voglio farne un discorso politico, solo un discorso di realtà.
Non essendo state fatte più le estati catanesi, c’è stato un calo di attenzione verso la cultura. Dunque bisognava recuperare l’attenzione del pubblico. E l’attenzione del pubblico, ovviamente, è più facile recuperarla con un impatto di qualche tipo. Per cui per prima cosa ho pensato di approfittare del grande cosmopolitismo della Sicilia, una terra che è stata invasa ed ha conosciuto tutti i cosiddetti “stranieri”. Io credo molto alla cultura dei barbari cioè dei barbari come stranieri, intesi nell’etimologia reale della parola.
Dobbiamo ospitare il contributo degli altri e poi misurarci con essi. E difatti il mio personale progetto, che avrei iniziato anche quest’anno, è quello di coinvolgere una serie di realtà locali. Ci siamo limitati al “Centro ZO”, con cui abbiamo stabilito un rapporto sempre più stretto. Avrei voluto legarmi maggiormente anche ad “Improvvisatore Volontario”, a “Scenario Pubblico”, a varie altre realtà che trovo davvero preziose. Non è stato possibile per una questione organizzativa, di costi, di un budget che non è esattamente milionario e nemmeno erogato tutto in una volta sola, per cui questo progetto è stato rimandato di un anno. Ciò premesso, credo comunque che ci sia un equivoco. Gli artisti siciliani, che ci sono e non sono pochi, non vivono in una totale apnea perché sono ben conosciuti fuori dalla Sicilia. Penso a Francesco Cusa, Giorgio Occhipinti, Gianni Gebbia: non sono mica degli emeriti sconosciuti che hanno per forza bisogno di una mano. Trovo giustissimo comunque l’incontro tra questi artisti ed altri artisti che magari hanno dei costi. Trovare qualcuno che questi costi li affronta favorisce le cose. Questo è un progetto al quale io sicuramente tengo, però vorrei far presente che non lo si fa per dare una mano ad artisti di fama, perché non ne hanno bisogno. Piuttosto mi auguro che l’incontro trai musicisti siciliani e musicisti di altre parti involgi altri, più giovani e con meno possibilità, a sviluppare maggiormente il proprio lavoro. Solo così il soldo dello stato può tornare utile.

Nella rosa degli eventi musicali c’è da registrare l’omaggio a due grandi della musica rock del passato: Frank Zappa (Absolute Ensemble) e Jimi Hendrix (The world saxophone quartet experience), personaggi che interpretavano la musica come arte visionaria. Pensa che oggi esistano ancora artisti simili?
Mah! Se si fa un tributo a Frank Zappa vuol dire che non si è trovato un sostituto, temo. Credo che nel ‘900 abbiamo vissuto una grandissima stagione ed è cosa veramente pensosa che, soprattutto in Italia, il ‘900 venga così trascurato. È stato un secolo orribile. Ma allo stesso tempo, proprio per questo, ha dato tanto da pensare. Ha avuto la capacità intellettuale di elaborare anche gli orrori. Il ‘900 ha prodotto una gran serie di figure estremamente carismatiche, penso per l’appunto a Frank Zappa e Jimi Hendrix, ma anche a John Coltrane, Charlie Parker, Louis Armstrong e tanti altri. Considerando il fatto che la cultura che si è andata maggiormente ad affermare nella seconda metà del ‘900 è stata la cultura americana, quindi una cultura multietnica, credo che essa in qualche modo abbia aperto le porte alla globalizzazione culturale. E adesso la globalizzazione ha comportato un tasso di elaborazione tale, un flusso così costante di novità, da non permette l’emergere di figure capaci di far da coagulo.
Personaggi come Parker, come Coltrane o come Jimi Hendrix ad un certo punto hanno fatto da riassunto, hanno sintetizzato tutta una serie di stimoli e li hanno sviluppati con una specificità che adesso sinceramente manca. Ma è anche vero che se il compito dei vari Hendrix era già enorme, perché si trovavano a coagulare una molteplicità di informazioni, oggi questo stesso compito è decuplicato, se non centuplicato. La massa di informazioni che ci provengono da tutto il mondo comporta un’elaborazione linguistica costante, che più che portare a figure uniche e messianiche comporta una sorta di livellamento di piani che vivono in costante dialogo senza che emergano personalità rilevanti. Ci sono delle figure di spicco, ma mancano le figure che rappresentavano la punta dell’iceberg. Oggi abbiamo l’iceberg, ma la punta ancora non si vede. Sempre che poi sia davvero necessaria.

La presenza di Lou Reed è molto prestigiosa, ma riusciremo a far calpestare i palchi di EtnaFest al “Cigno Bianco” David Bowie?

Francamente è solo una questione di denaro. Sono stato in contatto con David Bowie  tre anni fa e lui mi offrì per Catania una esclusiva per l’Italia che dovetti declinare perché avrei fatto un unico concerto. Quell’anno ne feci una decina: ne avrei fatto uno solo.

Solo un discorso di budget, dunque.
Sa, stiamo parlando di quasi quattrocentomila euro…
Ci vorrebbero gli sponsor. Ecco uno dei grandi problemi delle manifestazioni. La Sicilia ha un handicap perché non è ben attrezzata per la ricerca di sponsor. Più in generale non si trovano fondi privati perché in Italia non c’è attenzione nei confronti della cultura. Voglio dire che, a parte i meccanismi legislativi sullo scarico degli oneri fiscali, noi abbiamo avuto il mecenatismo, cioè la sporadica assunzione di un artista ogni tanto. Mentre invece l’investimento nella cultura non è fatto di cifre enormi, ma costanti. D’altronde la nostra classe industriale ed imprenditoriale, “i ricchi”, con la cultura non hanno tutto questo rapporto. Con tutta pace alla buon’anima io ricordo l’avv. Agnelli parlare di Juventus e Fiat, non ricordo che parlasse di incentivi per le nove sinfonie d Beethoven. Un problema grande risiede nel fatto che la nuova classe industriale sorta dopo Mani Pulite non ha radici in campo culturale, quindi non ha interesse nel costante incoraggiamento della cultura. Non mi interessa sapere che Berlusconi dichiari di amare Bach o che Tronchetti Provera adora ascoltare Charlie Parker, ma che abbiano un interesse a dare alla cultura con costanza. Ho una grande ammirazione per il sindaco Veltroni che secondo me ha trasformato Roma, dandole una veste di capitale dello spettacolo e di cultura molto forte. L’unica cosa che contesto è che magari, invece di Simon e Garfunkel, si potrebbero fare diverse altre cose meno ammiccanti e forse meno ruffiane. Insomma, investire in altro.

Com’è cambiato secondo lei il rapporto tra musica e pubblico negli ultimi decenni? A cosa si è ispirato per scegliere il target di EtnaFest?
Mi sono ispirato al fatto che sono un meticcio. Mio padre era di colore, mia madre era ebrea e la mia famiglia viene da diversi paesi [Fa un lungo elenco NdR]. Come vede l’impostazione della manifestazione mi viene naturale.
Credo poi molto nel pubblico giovane. Credo nel pubblico in generale, ma le dirò che a volte provo un moto di irritazione quando a un concerto trovo esponenti della mia generazione o oltre. Non è che ovviamente io intenda negare ai miei coetanei cinquantenni la possibilità di andare a un concerto, sono arrivato a cinquant’anni e ho ascoltato e visto molto. Io potrei campare con quello che ho.  Adesso è il turno degli altri, ai concerti si dovrebbero vedere facce più giovani. L’allargamento dei propri orizzonti si fa a vent’anni, non a settanta. Purtroppo il pubblico giovane non è mai abbastanza incoraggiato e perciò trovo che occorre fare una politica di prezzi molto più bassa. Reputo che ancora siano importanti i fondi dello Stato, i fondi pubblici permettono il non-guadagno. Non credo allo stato che guadagna, credo che invece ci dovrebbe sempre essere un budget a perdere nella cultura. Il guadagno è dei privati, mentre il fondo pubblico è giusto che lo stato lo riprenda altrove. In genere, quando c’è una crisi economica, la cultura è la prima cosa che si taglia e ciò non ha il minimo senso.
Il pubblico giovane, che non ha ceduto ai compromessi, c’è e bisogna incoraggiarlo maggiormente. Credo che a Catania ci sia un pubblico molto più ampio d quello che si vede. Trovo ad esempio che occorra coinvolgere molto di più l’università. Il problema principale è che, se si rimane anni senza fare nulla, poi sono tutti anni da recuperare. A Catania purtroppo si sono stabilizzate delle abitudini a non seguire la cultura perché non c’era quasi niente da seguire. Poi è dura riconquistare il pubblico: passano anni! Ma il pubblico si crea, si forma. Sarebbe estremamente stupido stare a lamentarsi per la sua assenza.

Daniele Giuseppe Bazzano

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