Nessuna caccia al tesoro e niente documenti ammuffiti. I faldoni del processo Ofelia sono asciutti e puliti. «Gli atti ci sono, sistemati semplicemente dove dovevano stare» spiega ai giudici il pubblico ministero Giovannella Scaminaci. Passato un mese dall’ultima udienza, si chiude definitivamente il giallo, rivelatosi falso, che incombeva sul processo in cui a sedere sul banco degli imputati sono gli imprenditori Giuseppe e Alessandro Monaco, titolari rispettivamente delle società Ofelia Ambiente e Bas Bis Engeenering srl. Accusati dalla procura etnea, insieme a due funzionari della provincia di Catania, a vario titolo di gestione di rifiuti pericolosi, abuso d’ufficio e falsità ideologica. Un presunto sistema catalizzato sulla spazzatura che si sarebbe sviluppato tra due impianti per il trattamento dei rifiuti situati a Santa Venerina e una presunta discarica abusiva nei pressi di Ramacca dove la munnizza sarebbe stata illecitamente smaltita.
Ad avanzare dubbi e perplessità ipotizzando addirittura «lo smarrimento di faldoni e documenti» erano stati gli avvocati difensori. Un processo nato viziato? Assolutamente no per la procura, ma semplicemente delle difficoltà nella consultazione del Tiap, l’applicativo informatico sviluppato dal ministero della Giustizia per la gestione e la consultazione dei fascicoli classificati per tipologia e cronologia. L’informatizzazione della macchina giudiziaria, almeno in questo caso, non pare però aver raggiunto i risultati sperati. Su tutti il cambio di velocità di una giustizia lumaca che vede l’Italia come il fanalino di coda dei paesi dell’Unione europea per la lentezza dei suoi processi. Dal rinvio a giudizio di Monaco & co. – risalente al 27 gennaio 2014 – sono trascorsi quasi undici mesi. E non si è ancora aperto il dibattimento.
Sciolto questo nodo ci saranno da sentire i testimoni di accusa e difesa, analizzare complesse perizie e ovviamente decidere sulle ipotesi di reato. In mezzo c’è già tutta la quotidiana routine del palazzo di giustizia: dal primo rinvio del 14 aprile per il più classico difetto di notifica, passando per la valutazione delle richieste di costituzione delle parti civili di luglio, fino alla cronaca giudiziaria attuale in cui si ipotizzava lo smarrimento della documentazione. A incombere su tutto, come spesso accade, sono anche i termini di prescrizione con gli imputati sospesi in un limbo pieno d’interrogativi. Ai fatti, ormai risalenti al periodo 2006-2009, si aggiunge un processo di primo grado, problemi in corso d’opera esclusi, che si svolgerà ogni secondo martedì del mese. L’ipotesi di una fine anticipata non è fantagiustizia.
Da risolvere, prima dell’inizio del dibattimento, ci saranno infatti altre eccezioni sollevate dalle difese, sulle modalità con cui vennero svolte le indagini. Accertamenti e controlli che, per gli avvocati, non avrebbero garantito agli imprenditori imputati il diritto di difesa. Tra queste anche la distanza dei laboratori ,«situati a 700 chilometri da Catania» per le analisi, durate due mesi, dei frammenti di terreno. Lontananza e tempi eccessivamente lunghi che non avrebbe garantito, per le difese, la possibilità a Monaco di poter assistere alle procedure.
Giuseppe Monaco figura come imputato anche nell’altro filone dell’inchiesta denominata Ofelia, quella che vede al centro un terreno della zona industriale di proprietà dell’Esa, l’ente di sviluppo agricolo della Regione Sicilia, trasformato, secondo l’accusa, in una piccola terra dei fuochi.
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