Occupazioni nelle scuole, c’è chi dice no «Affossiamo il nostro Paese già dal liceo»

Dopo due giorni di occupazione, docenti e personale tecnico sono tornati tra i corridoi del liceo scientifico statale Boggio Lera. La protesta degli studenti, partita martedì in continuazione della staffetta portata avanti con gli altri istituti superiori della città, si è trasformata stamattina in cogestione. «I ragazzi sono riuniti in assemblee nelle quali si affrontano argomenti di carattere generale – afferma la vicepreside, Lina Lo Presti – Si parla di femminicidio, diritto allo studio e temi del genere. Con loro ci sono anche i docenti». Ma la decisione non è stata presa all’unanimità. Un gruppo di alunni ha deciso di portare avanti l’occupazione all’interno di uno dei padiglioni della grande struttura. «Chiedo scusa a tutti coloro che si stanno trovando davanti un quadro completamente differente da quello di ieri sera», scrive nel gruppo Facebook ufficiale del Boggio Lera Arianna Tarantino, rappresentante d’istituto. Formalmente non tratta di una vera occupazione precisa la vicepreside: «Si sono dissociati da quanto deciso e stanno facendo gruppo a sé, ma le porte sono aperte e chiunque può entrare e uscire». Una situazione nelle quali è difficile trovare una comunione d’intenti, dunque. Un punto di vista condiviso anche da uno studente che ha inviato alla nostra redazione una lettera, chiedendo di rimanere anonimo e che pubblichiamo di seguito.

 

Ho scelto di scrivere anonimamente perché non m’importa né di ricevere i tanto agognati mi piace, né di raccogliere i consensi di chi la pensa come me; ho scelto di scrivere un messaggio che sicuramente verrà ignorato dalla stragrande maggioranza degli studenti perché prima di «sospirare ed andare avanti», come suggeritomi da qualcuno, voglio cercare di stimolare una riflessione interiore in chi si prenderà la briga di leggere questo mio piccolo pensiero. Ora che è stata annunciata la fine dell’occupazione del nostro liceo posso dire la mia senza rischiare di essere accusato di voler sabotare o destabilizzare le cose. Ho ascoltato e letto le parole dei ragazzi che hanno promosso la mobilitazione di protesta in questi giorni, ed ho notato che in tutto ciò che è recentemente accaduto c’è qualcosa che, a mio avviso, non va.

Durante l’autogestione di lunedì è stato detto che «ognuno di noi ha capito in maniera consapevole l’esigenza del cambiamento»: ma si può sapere a chi diamine si riferisce quel «noi»? Mi viene da pensare ai partecipanti dei cortei, dei sit-in e delle assemblee che ci sono state prima della nostra occupazione. Ai cortei (sempre fatti in orario curriculare, anche quando c’è da difendere il diritto allo studio…) ho visto sempre una partecipazione molto particolare: solitamente, quando l’evento è «grosso», si hanno diverse centinaia di partecipanti (che molto spesso non hanno assolutamente idea del perché, concretamente, essi si trovino lì a manifestare) all’inizio della manifestazione, che poi diminuiscono esponenzialmente ogni ora fino a ridursi ai soliti venti o trenta. Per non parlare del sit-in che si è tenuto domenica 17 a piazza Università: non è vero che c’erano cento persone del Boggio Lera; al massimo eravamo in cinquanta. E di quelle cinquanta persone, venti o trenta erano i soliti.

Dove sta la criticità in tutto questo? Non prendiamoci in giroCome possiamo sperare di cambiare il mondo se la nostra piccola realtà quotidiana Boggio Lera funziona male? E non mi riferisco assolutamente alla partecipazione a manifestazioni varie, ma a qualcosa di molto più basilare: comitati studenteschi e assemblee d’istituto. Quest’anno, per la prima volta, qualcuno si è accorto che i comitati, da soli, non bastano a far funzionare efficientemente la comunicazione tra presidenza-rappresentanza d’istituto-rappresentanza di classe; si è creato pertanto un gruppo Facebook affinché la comunicazione fosse più rapida ed efficacie. Sarebbe stato realmente utile se qualcuno lo avesse usato: sono circa 120 le persone al suo interno, ma sono circa in dieci quelli a dare segni di vita ogniqualvolta i rappresentanti d’istituto vi scrivono qualcosa d’importante.

Vogliamo parlare delle assemblee d’istituto? Generazioni di studenti si sono impegnate affinché queste diventassero momenti ufficiali in cui vivere la scuola in maniera diversa e creativa. Tutto quello che viene fatto durante un’occupazione lo si può fare meglio durante un’assemblea d’istituto. Ma allora, dove sta il problema? Il problema siamo noi studenti stessi. Noi che alla parola assemblea associamo vacanza, calia, scogliera, biliardino, #mcdonald #bestfriend. Noi che cominciamo ad affossare il nostro Paese a partire dal liceo, dando prova di immaturità ogni volta che fuggiamo dalle nostre responsabilità, solo «perché tanto nessuno ci obbliga». Ma dico io, vi guardate attorno ogni tanto? Vi rendete conto che l‘unica cura al cancro di questo Paese è il senso del dovere di noi giovani? Come potete restare indifferenti dinanzi alla corruzione politica e soprattutto morale dell’Italia? Come fate a non avere voglia di dimostrare col vostro sudore e col vostro sacrificio di essere pronti a farvi in quattro pur di dare il vostro contributo?

Di fatto, le assemblee vengono snobbate. Ecco perché di punto in bianco sorge l’impellente necessità di autogestire e quindi occupare. Sempre nel documento letto nei gruppi di studio si affermava che quello era l’unico modo di confrontarsi e dibattere tra studenti senza intermediari. Ma siete seri? «Ovvio che sì» mi risponderete, perché inventarsi necessità che di fatto potrebbero benissimo essere soddisfatte è meno doloroso che ammettere che noi stessi siamo la causa del nostro male. Non c’è reale coscienza in tutto questo, solo una grande illusione. Non c’è assolutamente da essere ottimisti quando si vedono 400 persone all’assemblea in cui si decide se occupare o meno su una scuola che conta quasi 1800 persone. C’è da stringersi nelle spalle e piangere dentro, in silenzio.

Si diceva inoltre che il percorso che si era scelto di intraprendere sarebbe stato un «nuovo approccio» alla protesta. Un nuovo approccio alla sensibilizzazione e all’informazione sarebbe stato evitare di accontentare il 99 per cento degli studenti della nostra scuola a cui continuerà a non importare assolutamente nulla di politica, economia ed attualità, regalando loro due o tre giorni di calia. Se le persone che tanto desideravano occupare intendevano informare e sensibilizzare per bene, perché non hanno presentato un progetto di educazione civica alla preside prima che l’occupazione avesse luogo? Perché non si sono sfruttate le aule autogestite, in addizione alle assemblee d’istituto? Se il problema è semplicemente «essere giustificati» per l’indomani, perché non organizzarsi per queste attività di sabato? Quello che penso, e che è stato dimostrato più e più volte nell’arco della mia permanenza in questo liceo, è che a quanto pare siamo tutti pronti a fare la rivoluzione, a patto che non intralci il nostro fine settimana.

Sapete cosa sarebbe realmente rivoluzionario a mio parere? Svegliarsi una mattina e vivere le nostre vere vite, non quelle che i nostri amici ci hanno costruito addosso, iniziare a comportarci secondo ciò che la nostra più profonda coscienza ci impone, e non ragionando in termini di apprezzamento sociale, reale o virtuale che sia: staccare insomma la spina al nostro avatar facebookiano, che ci rende schiavi di subdole e squallide dinamiche che si stanno lentamente sostituendo al nostro naturale spirito critico.

Un’occupazione, si sa, è un atto simbolico molto forte che non può che essere largamente apprezzato dagli studenti. È una «vagonata di consensi», come diceva qualcuno. È una vagonata di mi piace, aggiungo io. Ma noi non possiamo permettere che giusto e sbagliato vengano rimpiazzati da tanti mi piace e pochi mi piace. Questo non è essere umani. Questo è essere pecore. E quello che ho visto io nella mobilitazione studentesca di Catania è un gregge impazzito, un gregge arrabbiato forse, ma che gira in tondo e che non va da nessuna parte. Gira in tondo perché non conosce ciò che protesta, confonde investimenti con tagli, non conosce la Costituzione, ignora il funzionamento del Parlamento, è digiuno di politica, crede che l’economia sia semplicemente addizione o sottrazione di denaro, contesta un sistema scolastico che esso stesso spesso e volentieri mortifica con il suo menefreghismo e con il suo disinteresse. Sì, è questo che penso: ogni volta che invece di mostrare attenzione alle lezioni dei nostri professori guardiamo con aria impaziente il cellulare per controllare quanto tempo manca alla fine dell’ora, lì dimostriamo di non meritare la scuola che abbiamo, con tutti i suoi pregi e con tutti i suoi difetti; ogni volta che invece di studiare e di dimostrare realmente quanto valiamo preferiamo fare i cazzoni nei modi più disparati, lì dimostriamo di preferire la disoccupazione al lavoro.

Non è vero che la scuola è una prigione. ma se questa è la sensazione che essa vi dà, probabilmente vi trovate nel posto sbagliato. Il posto giusto? In campagna, a raccogliere pomodori, sulle impalcature, ad imbiancare, o sulle strade, a spazzare. Come la mettiamo?
Prima di protestare per una scuola migliore (scuola intesa come ambiente, ragazzi, professori…) , cerchiamo di diventare studenti migliori, rendiamo falsa l’equazione studenti mediocri = scuola mediocre.

Se le nostre strutture non sono a norma, informiamoci. Il nostro è un liceo scientifico statale a gestione provinciale: interpelliamo la provincia, esigiamo risposte, ma non pretendendo di occupare il Provveditorato in centocinquanta, mandiamo lì i nostri rappresentanti, organizziamoci per bene. C’è una grossa differenza fra utopico ed utopistico: il primo lemma indica un ideale progressista, propositivo, utile al cambiamento; il secondo un qualcosa di irrealizzabile, non sostenibile, inutile. Sta a noi decidere cosa fare col nostro operato.

Redazione

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