Passeggiare per le campagne di Noto e imbattersi in una grotta trasformata in catacomba, presumibilmente di epoca paleocristiana. Un ingresso solo parzialmente nascosto dalla vegetazione e all’interno diversi spazi, collegati da un lungo corridoio. Sulle pareti si vedono numerose incisioni, ma anche segni di atti vandalici e chiazze scure a terra, probabili resti di falò. «Ho visto la grotta, mi sono avvicinata convinta che fosse una delle tante che si trovano in questa zona, invece sono rimasta senza parole». A raccontare l’esperienza è Francesca Sara Perna, professionista della comunicazione, romana di origine e portavoce del comitato per il recupero della ferrovia Noto-Pachino. «Quando sono libera, passeggio per ore e, un po’ per passione un po’ per rilassarmi, mi diverto a fare foto soprattutto dei siti archeologici».
È in una di queste uscite, in contrada Torresena lasciando la strada che dal canile di Noto va verso il monte Finocchito, che si imbatte nella catacomba. «Sono entrata non immaginando di trovarmi davanti un ambiente così grande: ci sono diverse stanze, alcuni corridoi, con quelle che sembrano tombe scavate nella roccia, uno spazio aperto da dove entra la luce e che assomiglia a una cappelletta, all’ingresso c’è una cisterna». Sulla base della documentazione fotografica, Santino Alessandro Cugno, archeologo siracusano, spiega: «Si tratta di un ipogeo paleocristiano del tipo ampiamente diffuso nell’area iblea, verosimilmente trasformato in abitato rupestre nel Medioevo».
L’area del monte Finocchito, poco lontana, ha restituito testimonianze importanti per conoscere l’età del ferro in Sicilia. «Soprattutto ceramiche di cultura indigena, quella dei Siculi, che hanno permesso di approfondire il processo di ellenizzazione – spiega il tecnico archeologo Iorga Prato -. C’è stato infatti un lungo periodo di influenza della cultura greca sui siculi». E anche tutto il gruppo di necropoli tufacee nei pressi di Noto antica è originariamente connesso a monte Finocchito. «La zona è stata studiata da Paolo Orsi negli anni novanta dell’800: si tratta di ambienti multipli scavati nella roccia, pertanto definibili ipogei. Sono necropoli estese quindi facevano parte di un villaggio, talora organizzate in colombari, ambienti tombali disposti uno sull’altro in verticale, vergognosamente rimaneggiati nel tempo». Nel Siracusano ai tombaroli si è aggiunto l’uso agricolo e pastorale di questi luoghi. «Nel 1943 – aggiunge il tecnico archeologo – molte grotte sono state adattate a rifugi antiaerei».
Tuttavia, la catacomba in cui si è imbattuta Perna non sarebbe tra quelle catalogate. «Me lo hanno confermato diverse guide escursioniste – spiega la diretta interessata -, quello che fa rabbia è che non esiste alcuna segnalazione della presenza di questo sito, scoperto invece da persone che non sempre ne hanno avuto rispetto». «La presenza di falò – conclude Prato – non deve meravigliarci, purtroppo la Sicilia attira anche maleducati, persone che non fanno dell’escursionismo un’arte nobile ma ne approfittano per lasciare qualche ricordino».
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