«Siccome io faccio parte di questo Stato e voglio contribuire alla ricerca della verità, intendo non avvalermi della facoltà di non rispondere, io voglio rispondere». Parte così l’esame di Annamaria Palma, avvocata generale della corte d’appello di Palermo, sentita oggi nelle vesti di teste indagata per reato connesso nell’ambito del processo a carico di tre ex funzionari del gruppo Falcone-Borsellino Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, accusati di calunnia aggravata. Stessa accusa contestata oggi anche ad Annamaria Palma e a Carmelo Petralia (oggi procuratore aggiunto a Catania), indagati dalla procura di Messina. «Sono arrivata a Caltanissetta il 14 luglio ’94, dopo un provvedimento di applicazione proveniente dalla procura di Palermo – spiega -. Sono subito entrata a far parte della Dda di Caltanissetta, ma non sono stata designata per svolgere alcuna indagine sulla strage di via D’Amelio. Ho iniziato a studiare il fascicolo dell’omicidio Livatino. Da luglio a ottobre ho partecipato, lo ribadisco come ho già detto in passato, a due o tre atti istruttori ad agosto che riguardavano Scarantino e ai due verbali che ha reso nel ’95, nel corso dei quali affrontava per la prima volta il tema del coinvolgimento alla riunione nella villa di Calascibetta, da noi sempre ritenuta di natura organizzativa, facendo il nome di tre collaboratori di giustizia, Cancemi, La Barbera , Di Matteo. Il mio coinvolgimento effettivo comunque risale all’ottobre del ’94».
La collaborazione di Vincenzo Scarantino – L’esame si concentra subito proprio su di lui, sul picciotto della Guadagna e le sue dichiarazioni. «In quella fase a me non diede affatto l’impressione, sulla base di quello che dichiarava, di un collaboratore che non volesse collaborare, anzi. Faceva di tutto per accreditarsi come collaboratore, poneva delle precisazioni, faceva domande. La prima dichiarazione fu anche fonoregistrata pur non essendo all’epoca obbligatorio. Impressione di piena collaborazione da parte sua, lo ripeto», spiega oggi in aula l’avvocata. Lei è presente agli interrogatori dell’11 e del 12 agosto ’94, e al terzo, quello fatidico del 6 settembre, in cui Scarantino tira fuori per la prima volta il nome dei tre collaboratori, coinvolgendoli di fatto nella strage. Lo stesso interrogatorio durante il quale, a Scarantino, viene anche mostrato un album fotografico che include, guarda caso, anche le foto dei tre pentiti che tirerà in ballo proprio quel giorno. «Fu un salto in avanti – dice -. In tutti e tre gli interrogatori io non ho mai appreso, se non nel momento in cui Scarantino faceva le sue dichiarazioni, che esistesse una preventiva concertazione con chi non lo so, rimanemmo tutti a bocca aperta quando fece quei nomi, quelle sue dichiarazioni avevano delle rufluenze negative non solo su via D’Amelio ma anche sulla strage di Capaci».
«Non mi meraviglia che ci fosse un album fotografico – aggiunge -. Noi magistrati siamo partiti insieme con un volo messo a disposizione dalla dottoressa Boccassini e si è parlato solo di questioni personali o non si è parlato affatto per il rumore dell’aereo. Il gruppo Falcone-Borsellino portava spesso degli album fotografici che metteva a disposizione, ma non perché li scegliessimo ma nell’eventualità che potessero esserci utili all’esame. Quello di quel giorno riguardava persone che erano imputati tutti della strage di Capaci, quindi probabilmente loro che portavano delle carte, portarono questo album fotografico, che fu utile in quel momento. Se non lo avessero portato, ne avremmo parlato la volta successiva – spiega -. Ce ne fu un altro interrogatorio, dal quale io a un certo punto mi allontanai anche. In pugno, il processo, fino a quella data lo aveva il pm che se ne occupava, quello che io ho fatto l’ho fatto su applicazione specifica sul caso, col convincimento di Tinebra di assegnarmi definitivamente questo processo bis in piena sintonia con Di Matteo fino al ’98. Io prima non mi occupavo della strage di via D’Amelio». Tuttavia, malgrado si occupi a un certo punto delle indagini, non entra mai pienamente in contatto con i funzionari del pool investigativo costituito proprio dopo le stragi.
«Io conobbi Mario Bo in una circostanza: una volta scesa dall’areo mi si avvicinò un signore e mi salutò cordialmente, non capii all’inizio. Si avvicinò e si presentò come dirigente del gruppo Falcone-Borsellino. Prima di tutti questi fatti, io non conoscevo nessuno di quel gruppo. Conoscevo, per la fama che aveva, il dottor Arnaldo La Barbera». Lo stesso che oggi, ne è fortemente convinta, venne solo alla fine dell’interrogatorio di quel 6 settembre ’94, quando il verbale era già stato chiuso. Non presenziò, quindi, mentre Scarantino faceva le sue dichiarazioni. «Io pensai che lo avesse chiamato la dottoressa Boccassini, anche se non l’ho vista mai chiamarlo. Ma ho pensato che forse lo aveva chiamato per lo stupore che si era creato per quella situazione. Ma lo ribadisco, lui non era presente, è arrivato dopo, a verbale già chiuso. Tra l’altro La Barbera, come mi raccontò Mario Bo, era solito partecipare alla mostra del cinema a Venezia. Ho cercato sul web per capire se il 6 settembre ’94 ci fosse la mostra ed effettivamente c’era, quindi ho pensato solo che si dovessero incontrare dopo per altri motivi. Questa è la verità». Lo conosce per la sua fama, ripete più volte, ma non avrebbe mai lavorato con La Barbera, né a Palermo né a Caltanissetta.
I colloqui investigativi del ’94 – Ma chiuso questo capitolo, si torna inevitabilmente al finto pentito protagonista del «più grande depistaggio della storia del paese». E ai numerosi colloqui investigativi del luglio ’94, malgrado lui avesse già cominciato a collaborare. «Io ho lavorato su un fascicolo di rinvio a giudizio, dovevo organizzare la lista testi e altro, in quel processo non si parlava di colloqui investigativi, io non ne ebbi mai conoscenza nel corso di tutto il giudizio di primo grado e forse neppure durante il secondo – spiega -, è chiaro che oggi lo so che ci furono dei colloqui investigativi. Io non ho mai autorizzato colloqui investigativi in questo processo, non ne ho mai avuto notizia dell’esistenza, se non attraverso queste nuove indagini che state svolgendo voi. Non avrei autorizzato un colloquio investigativo nei confronti di chi aveva già iniziato a collaborare, non ne vedevo il motivo. I colloqui, poi, sono prerogativa del procuratore della Repubblica, venuto a mancare. Mai avuta alcuna notizia». Neppure nel caso di Andriotta. «Una cosa che mi meraviglia moltissimo – dice -. Il lavoro di questa procura imponeva ritmi frenetici, quando non eravamo qua materialmente facevamo atti istruttori, era una vita infernale, io a questo Stato ho regalato il 50 per cento della mia salute, ed è bene che lo sappia, oltre all’affetto perso di mio figlio». E qui la voce le si spezza.
«Per avere poi che cosa? Per essere indagata ingiustamente, questa cosa non riesco a tollerarla, perché mi trovo nelle condizioni di dover esser attaccata dai famigliari di quel magistrato ucciso che io adoravo, lo trovo ingiusto – si sfoga -. Lavoravamo dalla mattina alla sera, non ci fu alcun contrasto, ci fu un unico pensiero, volontà e decisione: rivedere tutto Scarantino, “rivediamolo in tutte le sue parti”, questo ci dicevamo, “a seguito di quello che dirà faremo l’interrogatorio dei collaboratori coinvolti e poi procederemo coi confronti”. Il tutto è stato fatto, prima di buttare a mare Scarantino, alla luce di queste dichiarazioni così stravolgenti. Ricominciamo da zero, ci siamo detti. E lo abbiamo fatto davvero». Nel suo racconto di oggi non c’è il ricordo di alcun attrito tra i magistrati di quell’ufficio, al contrario di quello che ha raccontato invece solo pochi giorni, sempre in questo processo, Roberto Sajeva. «Forse c’erano dispareri, ma “contrasti” è un termine che non condivido. Sia io che Nino Di Matteo fummo tenuti quasi da parte in questa vicenda, perché non era ancora nella mente del procuratore di coinvolgerci. Così come so che la dottoressa Boccassini non mi riteneva un soggetto valido con cui interloquire di queste cose, infatti non me ne parlò mai. Compresa della famosa nota, quella a firma di Boccassini e Sajeva, che qualcuno faziosamente ha detto che fu indirizzata anche a me e al collega Petralia, invece non è mai stato così. Io quel documento non l’ho mai conosciuto, non l’ho mai visto. A me non è stato mai recapitato nulla, io l’ho visto solo durante il Borsellino quater. Ripeto, nessuno di noi ha mai svolto atti di cui oggi non c’è traccia, è stato fatto tutto rispettando le norme del codice».
Le collaborazioni mancate sulla strage – Dei tre collaboratori tirati in ballo da Scarantino, intanto, c’è Cancemi, uno che della strage del 19 luglio non vuole parlare. «Con noi ha mantenuto un ostinato rifiuto di parlare di via D’Amelio. Il 23 novembre ’93, prima delle dichiarazioni di Scarantino, disse che alla fase esecutiva avevano partecipato i Graviano, Tagliavia, Tinnirello, Carlo Greco e Pietro Aglieri, confidenza ricevuta da Raffaele Ganci – racconta Palma -. Ricordo un esame stringente fatto da Di Matteo che si concluse con questa frase: “Stavamo guardando delle immagini in televisione della strage e in quell’occasione mi fece questa affermazione”. Un punto su cui siamo tornati più volte. “Ganci se non voleva dirmi una cosa non me la diceva. Ma quando mi faceva affermazioni di questo genere mi diceva sempre la verità”. Una dichiarazione importantissima, considerata un punto fermo, a seguito delle dichiarazioni di Scarantino, per chiedere e ottenere poi quelle condanne». Non racconta nulla di quella strage nemmeno un altro collaboratore, Mario Santo Di Matteo. «Nell’ottobre ’94 in udienza al processo di Capaci dice che la volta successiva avrebbe parlato della strage di via D’Amelio. Ma a novembre gli sequestrano il bambino. C’è una famosa intercettazione di un colloquio in carcere con la moglie che lo invita a non parlarne, sappiamo come si è conclusa poi anche la vicenda del bambino, sequestrato e ucciso. Di Matteo da quel momento in poi non parlerà più, si è trincerato avvalendosi sistematicamente della facoltà di non rispondere. Non parlerà mai più di quella strage. Fu poi messo a confronto con Brusca, arrivarono anche alle mani, Di Matteo voleva ucciderlo».
I rapporti tra la procura di Caltanissetta e il Sisde e la pista Contrada – «Non ho mai sentito parlare di questi rapporti, salvo leggendo articoli di giornale – dichiara oggi Palma -. Non ho mai incontrato nessuno del Sisde né Contrada, mai avuto sentore di incontri fra il procuratore Tinebra e uomini del Sisde, anche perché eravamo in corridoi diversi e stavamo a lavorare nelle nostre stanze dalla mattina alla sera. Io, Petralia e Di Matteo abbiamo comunque svolto indagini sulla presenza di Contrada sul luogo della strage, non ricordo da dove partimmo, ma verificammo anche questa ipotesi: che il primo verbale della prima volante potesse essere stato strappato perché dava la presenza di Contrada sul posto, per cui era rimasto in piedi solo il secondo verbale redatto dopo. Quindi abbiamo svolto una serie di indagini». Per prima cosa controllano i suoi tabulati telefonici: la cella agganciato lo fa risultare, come da lui sempre dichiarato, a mare, in barca con tale Valentino, dei servizi segreti. Ben lontano da via D’Amelio. Ma i magistrati non si fermano, In fondo quel telefono poteva anche essere stato lasciato appositamente sulla barca. «Siccome avevamo notizia di una confidenza di questo genere ricevuta da un funzionario della polizia di Stato, Di Legami, da una fonte che non intendeva rivelare, con Petralia e Di Matteo abbiamo aperto un fascicolo. Abbiamo sentito il funzionario e anche l’allora capitano». Ma anche questa strada non porta a nulla.
«La pista su Contrada fu seguita, approfondita – ribadisce la magistrata -. Siamo andati oltre e abbiamo sentito anche Aricò, allora procuratore aggiunto di Palermo: avevamo la conferma che Borsellino fosse andato al ministero dell’Interno, lo avevamo letto anche in un’agenda in cui lui annotava i suoi appuntamenti e spostamenti, una grigia dell’Enel. Agenda che ho scoperto andando a trovare la vedova Borsellino per convincerla a testimoniare al processo. Mi portarono nel suo studio, sul tavolo c’era questa agenda e chiesi di poterla sfogliare. Era ferma al 17 luglio. Mi fu detto che conteneva le stesse cose dell’agenda rossa sotto il profilo degli spostamenti. Il giorno che era andato al Viminale era lo stesso in cui aveva proceduto all’interrogatorio di Mutolo, che a sua volta aveva detto che Borsellino aveva ricevuto una telefonata dal capo della polizia Parisi. Aricò, che lo accompagnò, ci ha detto di essere stato quasi sempre nella stanza con Borsellino in attesa di essere ricevuto dal ministro Mancino, ma non poteva escludere che si fosse allontanato anche per fumare. Ipotizzammo quindi che fu in quell’occasione che Borsellino incontrò Contrada, incrociandolo magari in un corridoio. Perciò, sentimmo anche Mancino. Lui negò di avere incontrato Borsellino, non lo ricordava, cosa che ci creò molti sospetti perché era impossibile che non lo conoscesse. Lui continuò a negare ostinatamente».
La tutela Scarantino, le pressioni della famiglia e la ritrattazione – «Seppi che era affidato al gruppo Falcone-Borsellino, non mi posi nessun problema. Eravamo alla preistoria della collaborazione. Avevamo Cancemi affidato al Ros, La Barbera e Di Matteo allo Sco, si optò per questa scelta per lui, ma non la feci io». Per quell’affidamento, però, di Scarantino al pool investigativo non vedrà mai il provvedimento ufficiale che stabilisce che il gruppo, appunto, si occuperà della tutela di Scarantino. Quel provvedimento, Annamaria Palma, afferma di vederlo oggi per la prima volta. Ammette anche di aver saputo, all’epoca, che l’utenza di Scarantino fosse sotto intercettazione. Ma prima della decisione di collaborare. E delle intercettazioni effettuate quando collabora già? «Non ricordavo che ci fossero intercettazioni anche durante la collaborazione, non so se ci sono atti a mia firma, io non lo ricordo». Risulterebbe però una richiesta a firma sua e di Petralia del 21 dicembre ’94: «Allora lo avrò saputo – dice secca -. Noi avevamo la consapevolezza che questa collaborazione di Scarantino sarebbe stata minata dalla famiglia, perché avevamo già visto i tentativi fatti con manifestazioni pubbliche, richiamo di giornalisti, alcuni pare stazionassero sotto l’abitazione della famiglia, e i tentativi da parte della moglie. Noi avevamo il fondato convincimento che Scarantino, che finalmente aveva deciso di collaborare, potesse essere indotto a inquinare e ritrattare le dichiarazioni, indotto dalla famiglia e dall’avvocato dell’epoca, Petronio, di cui proprio Scarantino parla in un’intercettazione, descrivendolo come un succube del cognato Salvatore Profeta».
Intanto il racconto di Scarantino, di lì a poco, crolla. La macchina che dovrà esplodere in via D’Amelio non l’ha rubata lui. Emerse queste novità, lui ha avuto ripensamenti? «No, i ripensamenti per noi erano soltanto indotti dalla famiglia. E leggendo i brogliacci ne vedo la conferma, ci sono tentativi continui – insiste Palma -. “Non pensi a noi che siamo innocenti? Non pensi a noi che siamo rimasti fuori e ci uccideranno?”, lui era convinto di collaborare. In quel momento quella era la verità che avevamo, questo brogliaccio è la conferma che abbiamo fatto bene a intercettarlo».Tra le chiamate oggi trascritte e depositate a processo dalla Procura, però, ce n’è alcune di Scarantino a lei e al collega Petralia. Come si spiegano? «Probabilmente il procuratore Tinebra diede i nostri numeri a Scarantino, io non lo accettai di buon grado, non era piacevole ricevere continue lamentele, per questioni di soldi o questioni logistiche. Non ha mai parlato di ripensamenti. Era un personaggio psicologicamente labile e forse per questo Tinebra gli diede i nostri numeri, un fatto che noi non abbiamo apprezzato. Non era inusuale comunque che un collaboratore chiamasse un magistrato se non parlava di atti processuali». Sul fatto, poi, che lui manifestasse di continuo il desiderio di tornare in carcere Palma non sembra stupita: «Puntava i piedi sul fatto che non gli piaceva la villa, era uno molto bizzoso, uno a cui i soldi non bastavano mai, faceva sempre questioni materiali, e poi era geloso come una scimmia della moglie».
«Parlava anche dei bambini, della scuola, se imparavano o meno, se li accompagnavano, ma non mi parlò mai di quello che leggo nel brogliaccio, che voleva che ci andassero certe persone anziché altri, io non lo so chi andava da lui». Scarantino, insomma, era solo uno che si lamentava di tutto quello di cui poteva lamentarsi, almeno a sentire i ricordi di Annamaria Palma. Persino la famosa ritrattazione del 26 luglio ’95 al giornalista Angelo Mangano non fu mai, a suo dire, una vera ritrattazione. «Il giorno dopo ci fu anche la discussione fra Scarantino e Mario Bo – comincia a spiegare -. Il dirigente del gruppo era entrato in casa per chiedergli spiegazioni proprio delle dichiarazioni fatte il giorno prima col cronista, ma Scarantino pensò che invece fosse entrato in casa per parlare con sua moglie. Scattò la sua solita gelosia e ci fu un diverbio fra loro. Il brogliaccio si ferma al 9 luglio, peccato che non proseguì, oggi non avremmo tutti questi dubbi, anche su quella che è stata definita una ritrattazione televisiva. La ritrattazione si fa davanti a un giudice», dice, sminuendo quasi un episodio che ha fatto storia e rimasto oggi per certi aspetti ambiguo. «Io quel giorno ero in udienza. So che Scarantino la sera stessa si scusò e fece ammenda per quello che aveva detto e dichiarò di voler continuare a collaborare. Per me quell’episodio era chiuso. Non fu una ritrattazione, la ritrattazione è giuridica».
Per la magistrata, quindi, quello che di recente è stato anche indagato e approfondito dalla Commissione regionale antimafia e dal processo in corso a Caltanissetta sul depistaggio, non era altro che un episodio da archiviare. Nemmeno un incidente di percorso, ma qualcosa che, in un certo senso, rientrava in quel temperamento sopra le righe di Scarantino. «Non ho mai avuto la percezione di falsità delle sue dichiarazioni. Per noi Scarantino rappresentava, ieri come oggi, un piccolo segmento. Non ci siamo fermati a lui per le indagini sulla strage. Le sue dichiarazioni – aggiunge -sono perfettamente sovrapponibili a quelle di Spatuzza, che toglie solo la Guadagna e Scotto dal suo racconto, per il resto sono perfettamente sovrapponibili». Nega, poi, che ci siano mai state delle pause durante i numerosi interrogatori di Scarantino, durante le quali qualcuno avrebbe potuto, in un certo senso, rinfrescare i suoi ricordi o aggiustare le sue dichiarazioni. «Fumavamo nella stanza e mangiavamo anche il panino con Scarantino, se ci sono state sospensioni ne abbiamo dato contezza nei verbali, certo se lui doveva andare in bagno non lo accompagnavo di certo io – spiega -. Non c’è mai stata una pausa in cui qualcuno gli rinfrescasse i ricordi. Io non l’ho mai rilevato questo, Scarantino oggi può dire quello che vuole. O era un grande attore…. Noi lavoravamo sulla base di quello che lui ci diceva».
Scarantino sembrava credibile, all’epoca, a quanto pare anche per i famosi sopralluoghi a Palermo. «C’era una sua dichiarazione che ci dava la sua consapevolezza, almeno visiva, della carrozzeria Orofino: di Tinnirello che dice a Orofino “Pinù leva tutti cosi, rumpi u lucchetto” e lui che risponde “ma spirugghio io“. Questa immagine visiva, questa frase, ci aveva convinto che lui avesse potuto dire una cosa vera. Abbiamo dato per buono quindi che i sopralluoghi fossero andati a buon fine. Ma quei sopralluoghi non li ho disposti io». A rendere credibile quello che poi sarà per tutti definitivamente il finto pentito della strage, sarebbe anche, per la magistrata, il contesto famigliare e sociale che circonda da sempre Scarantino: «La signora Basile, all’epoca sua moglie, aveva paura per i figli e per se stessa, capiva che la sua posizione di moglie di un collaboratore le era di grande nocumento, era una donna intrisa di mafiosità, perché viveva in un ambiente mafioso, con rapporti di parentela mafiosa e ricevendo pressioni da parte della criminalità organizzata».
«La signora – continua – riceveva due milioni di lire ogni sette-dieci giorni da Pino Greco, il fratello di Carlo Greco, per tramite di Aglieri. Non ha mai pagato un soldo per la difesa del marito, perché era la criminalità organizzata a pagare. Con questi elementi potevamo pensare che Scarantino fosse un personaggio stupido? Uno che poteva contrabbandare droga e sigarette dove voleva, doveva essere per forza protetto. E c’era quel rapporto di parentela con Profeta, che non era uno qualsiasi, su di lui aveva indagato lo stesso Borsellino. Io sono magistrato da quasi 42 anni, nella mia vita ogni volta che mi si è rivelata qualcosa che non fosse conforme al codice ho fatto relazione di servizio. Se qualcuno mi avesse detto un tanto sulla falsità di Scarantino lo avrei messo per iscritto, sarei stata la prima. Quale sarebbe stato il mio interesse a portare avanti un processo? Avrei fatto relazione di servizio, nessuno di noi ha mai pensato che fosse un falso collaboratore».
«Scarantino, ci dobbiamo tenere molto forti perché siamo alla vigilia della deposizione». Questa è una delle frasi emerse dalle intercettazioni. A parlare così al collaboratore è il pm Petralia in una conversazione datata 8 maggio ’95, che Palma oggi tenta di spiegare: «Non c’è nessun significato di un qualche suggerimento, ma alludeva allo spiegare a un collaboratore che entra per la prima volta in un’aula di giustizia in quelle vesti cosa accadrà – dice -, è prevista una preparazione, termine infelice, perché non si tratta di suggerire niente. Come si svolgerà il dibattimento, chi si troverà davanti, queste cose. Non c’è nessuna norma che vieti la cosiddetta preparazione, si fa ancora oggi. Scarantino altrimenti non si sarebbe lamentato delle contestazioni poste, se le avesse conosciute prima, la genuinità del collaboratore si vede anche da questo».
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