Davanti alla legge, nessuno può essere un «carico residuale». È quello che viene fuori dall’ordinanza della sezione civile Immigrazione del tribunale di Catania chiamata a giudicare sul caso della Humanity 1, la nave della ong tedesca Sos Humanity rimasta ferma per giorni al porto etneo lo scorso novembre. Con a bordo 179 migranti salvati in mare, 35 di loro non erano stati fatti sbarcare perché non sufficientemente fragili – stavano insomma troppo bene – secondo un decreto interministeriale del governo Meloni, in quei giorni alle sue prime battute. Un braccio di ferro risolto poi dai medici che, quattro giorni dopo, avevano messo nero su bianco come anche la salute psichiatrica dei 35 a bordo fosse compromessa. Un atto che ha portato allo sbarco completo, ponendo fine alla vicenda pubblica ma non al ricorso presentato dalle persone trattenute sulla nave. A cui la giudice Marisa Acagnino ha dato ragione, condannando lo Stato italiano a pagare poco più di cinquemila euro di spese legali.
Le 35 persone – provenienti da Pakistan, Egitto e Bangladesh – avevano avanzato un ricorso urgente quando si trovavano ancora a bordo, come strumento per poter sbarcare. Una necessità superata il giorno dopo, ma che – secondo Giulia Crescini, Cristina Laura Cecchini e Riccardo Campochiaro, legali dei ricorrenti – non rendeva invece superato il parere di un giudice sul punto. Si può scegliere chi far sbarcare e chi no in base alla salute, nonostante si tratti di richiedenti asilo che devono formalizzare la propria domanda in uffici che si trovano a terra? No, secondo quanto è scritto in maniera chiara nell’ordinanza. «Fra gli obblighi internazionali assunti dal nostro Paese – scrive la giudice – c’è quello di fornire assistenza a ogni naufrago senza possibilità di distinguere in base alle condizioni di salute». «Il decreto interministeriale era insomma illegittimo – spiega Campochiaro – Non andava applicato e quindi bene ha fatto il comandante a rimanere in porto per concludere il salvataggio».
Ed è proprio questo un altro dei punti – oggi chiarito dall’ordinanza – al centro del braccio di ferro di novembre tra le ong ferme al porto – quattro in quei giorni – e il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Se è vero che lo Stato sosteneva di avere autorizzato la nave a entrare in porto solo per prestare assistenza a chi stava male, la decisione chiarisce come un salvataggio possa considerarsi concluso solo con lo sbarco. «Tanto più che in questo caso i ricorrenti avevano anche manifestato la volontà di fare richiesta d’asilo, ancora da formalizzare – continua Campochiaro – Un aspetto rimasto oscuro nel nuovo decreto Piantedosi di inizio anno, secondo cui sembrerebbe che anche gli ufficiali a bordo possano rendere formali queste richieste». Ma non secondo il tribunale che, richiamando le norme, spiega come la domanda definitiva vada presentata negli uffici di frontiera o in questura. Con gli Stati europei che dovrebbero agevolare la presentazione della domanda «quanto prima», per poi essere registrata entro tre giorni. Termini e modalità che lasciano poco spazio alla fantasia gestionale dei prossimi sbarchi.
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