Nassirya: la dolorosa alba di tre anni dopo

Tutta l’Italia in questi giorni si è stretta attorno ai familiari che perdettero i loro cari nella tragica strage di Nassiriya, il 12 novembre del 2003. Sono già passati tre anni da quella drammatica giornata, ma ancora oggi non è facile dimenticare, non è facile comprendere il motivo di una tale azione cosi meschina, non è facile capire per tutti noi che i soldati italiani lì erano andati in missione di pace. Questo l’incarico ufficiale, ma difficile da credere.

I militari sono chiamati a compiere il loro dovere, possono scegliere di essere arruolati per missioni rischiose, possono anche però tirarsi indietro, in certi casi, e non rischiare la propria vita. Alcuni di loro, circa tre anni fa, scelsero la via più pericolosa, assumendosi le responsabilità della loro decisione. Quando arrivarono a Bagdad, agli inizi di novembre, i soldati rimasero colpiti dall’assetto di guerra della capitale e dalle alte protezioni che  preservavano gli obiettivi più a rischio. A Nassiriya invece solo sacchi riempiti di sabbia, o sassi avvolti in una rete di acciaio difendevano la postazione dell’esercito italiano. La strada che fiancheggiava la base era chiusa solo per metà. Soltanto la carreggiata più vicina all’edificio era inaccessibile. Per lanciare quella maledetta cisterna-bomba sarebbe stato necessario almeno uno spazio aperto di circa cento o duecento metri. Malauguratamente per i soldati italiani quel margine di percorso era scoperto da ogni tipo di protezione. Inoltre il ponte sull’Eufrate percorso dalla cisterna era stato sempre aperto. Solo in seguito all’attentato fu deciso di chiuderlo.

Tutti abbiamo avuto ed ancora oggi abbiamo il diritto di chiederci: se proprio era inevitabile mandare i nostri militari in “missione di pace” perché non furono prese delle serie precauzioni molto prima del tragico avvenimento? Perché i marines consegnarono ai nostri soldati una postazione cosi mal protetta? Le conseguenze di quelle sciagurate decisioni portarono alla morte di dodici carabinieri, cinque soldati dell’esercito e due civili italiani a causa dell’attentato, durante il quale morirono anche nove iracheni. Dentro il vecchio mezzo utilizzato dagli uomini di Al Qaeda per compiere l’atto terroristico, furono depositate tre tonnellate e mezzo di esplosivo, capaci di radere al suolo una intera palazzina. Il guidatore dell’automezzo cominciò a sparare qualche decina di metri prima di piombare sull’obiettivo, i tiratori scelti appostati sul tetto del palazzo cominciarono a sparare, cosi come fecero quelli che presidiavano la riva occidentale dell’Eufrate, vicino la base. Purtroppo la cisterna esplose qualche secondo dopo il conflitto a fuoco e mentre i militari italiani la videro dirigersi verso di loro si sentirono sgomenti, soli ed abbandonati da tutti, anche da coloro che sempre avevano rispettato e stimato.

Le vite di questi uomini saranno ricordate per sempre da tutti noi e la loro scomparsa servirà ancora una volta a farci capire l’inutilità della guerra. A distanza di tre anni, da quel 12 novembre del 2003, in Italia sembra che sia cambiato molto poco. Il nostro premier Romano Prodi, succeduto a quello di allora, Silvio Berlusconi, ha ribadito che cercherà di studiare un piano di rientro di tutte le truppe italiane ancora oggi impiegate sul fronte del Medio Oriente. La nostra speranza è quella di riavere a casa i nostri soldati, per non rivivere mai più degli avvenimenti cosi terribili.

Gianluca Nicotra

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