Musikanten e musi lunghi

Apprendo con dispiacere che Battiato ha cambiato dieta: adesso all’insalata preferisce Beethoven.

Immagino che questa rivoluzione alimentare lo abbia portato a dirigere Musikanten , operazione degna di un Artusi peregrino. Al suo desco Battiato ci invita volentieri, ma credo che stavolta i manicaretti preparati risentano della sua imperizia culinaria. Gli ingredienti in dosi omeopatiche scompaiono invece d’insaporire.

Il film è scollatissimo: i tre movimenti che lo compongono soffrono di una tale soluzione di continuità da sfiorare il ridicolo: fra battute improponibili e recitazioni improbabili, Musikanten si avvia straccamente verso il finale liberatorio (per la maggior parte del pubblico).

Sceneggiatura, montaggio e fotografia sembrano obbedire a null’altro che al suo autoreferenzialismo.L’uso dei lipstick , non ne critico il perché ma il come, sembra casuale, benché qualche sporadica trovata sia degna di nota. Parafrasando: non c’è un metodo nella sua follia, se per follia intendiamo la meritoria voglia e capacità di rompere i codici ed innovare.

I grandi che ogni tanto fanno capolino – Wittgenstein, Puskin, le stesse citazioni bibliche – portano al sorriso perché sembrano trovarsi lì tirati per i capelli e non per cittadinanza onoraria: vedere una mela per terra e nominare Newton non è citare, è scimmiottare.

Sono convinto che non si possa separare la forma dalla sostanza: l’opera d’arte in quanto tale non può prescindere da nessuna delle due e chi lo sostiene è tacciabile di apologia di reato.

Se l’intento è quello di raccontare una storia, il suo tentativo è miseramente fallito: quante banalità su Beethoven: che fosse oramai sordo e d’animo non affabile lo sapevamo già.

Se invece Beethoven è pretesto per un bignami del misticismo, francamente è avvilente.

Va da sé che la somma di questi addendi, volendo pensare che il film sia un pastiche fra i due, difficilmente dia risultato positivo.

Che Battiato dichiari fin dall’inizio il suo sperimentalismo non può e non deve metterlo al riparo dalle critiche oneste. Lasciamo che quelle becere e di casta si scontrino con le professioni di fede dogmatica di alcuni suoi fans. Fra i sostenitori del “millantautore” e gli accoliti del “santautore” – se la sbrighino fra loro – speriamo di attestarci a metà , giusto nel dubbio. Sappiamo già che il cinema è finzione e non pretendere la verosimiglianza come parametro della qualità del film (come in ogni altra forma d’arte) è cosa oramai nota. A chi ce lo ridice adesso, in maniera così sospetta e banale, almeno dobbiamo comunicare di essere arrivato fuori tempo massimo. Se appellarsi al rifiuto della recitazione naturalistica ha il sapore acidognolo di una excusatio non petita , chiamare a testo e testimone l’epistolario del grande compositore per avvalorare un credibilissimo Jodorowsky-Beethoven, riempie la bocca di amara beffa.

Mi chiedo cosa abbia voluto dire con questo film. Non credo si debba mai dimenticare il trascurabilissimo particolare che l’arte è comunicazione, relazione con il pubblico.

Invocare a mo’ di panacea l’élitarismo spocchioso sa di fuga, di sconfitta.

Sconfitta che non può essere riscattata dal volenteroso spettatore in cerca di senso e ragione al di fuori del film stesso. Anche perché questa ricerca è talmente suggestiva e soggettiva da autorizzare, in ultima analisi, lo stesso Fantozzi a staccare il suo perentorio, ma non assoluto, giudizio (ricordi l’immortale: « Per me la corazzata Potemkin è…»?). Mi piace pensare che se non fosse stato sommerso da 92 minuti di applausi avrebbe buttato giù un’esegesi da far invidia al tuo Grasso.

Fuor di facezia, voglio ricordare ciò che Gianni Canova (se il nostro è un, seppur gradevolissimo, duello, quale miglior nume tutelare del direttore di Duellanti ?) pone a paradigma del grande film: scuotimento, eccitazione, depressione, turbamento, cambiamento della percezione del mondo e di se stessi. Se questo ti par poco…

Bon appétit.

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Sergio Russo

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