«Siamo tutti arrabbiati con i medici della Croce rossa, non solo i pakistani: se entro due settimane il corpo di Mujahid non sarà a casa, scatterà lo sciopero». C’è aria di tensione al Cara di Mineo. La comunità pakistana piange la morte di un connazionale, Mujahid Alì, avvenuta lunedì 14 novembre all’ospedale Ferrarotto di Catania, dopo un intervento d’urgenza al cuore. «Era stato dal medico appena tre giorni prima e gli avevano detto che andava tutto bene. Poi una mattina s’è svegliato piangendo per il dolore e in poche ore è morto», racconta un suo amico, Saphir, davanti al centro, attorniato da una decina di connazionali. Non è solo uno sfogo, ma una vera denuncia: secondo chi sta al Cara, l’assistenza medica prestata dalla Croce rossa attraverso i suoi volontari non è adeguata. E se la consegna del corpo di Mujahid alla famiglia non avverrà in tempi brevi, «we’ll strike extremely» dichiara Saphir, sciopereranno ad oltranza.
«La denuncia della comunità pakistana mi stupisce, perché al Cara ci sono due medici per ogni turno e ben due ambulanze per i casi più gravi», commenta Gabriella Salvioni, ex direttrice del centro d’accoglienza di Mineo quando questo era sotto la responsabilità della Croce rossa, che adesso gestisce il solo centro medico. Salvioni conosce bene la vicenda e nega che ci sia stata una qualunque negligenza da parte dei medici. «Il ragazzo è venuto in ambulatorio ed è subito stato portato al pronto soccorso di Caltagirone in ambulanza. Da lì è stato mandato all’ospedale Ferrarotto di Catania, dove hanno regolarmente eseguito un’angioplastica – spiega -. Non è morto al centro ma all’ospedale, dove non ha superato la terapia intensiva post-intervento». Il corpo di Mujahid si trova ancora oggi all’ospedale Ferrarotto di Catania, nella camera mortuaria.
«Il problema principale è che i medici cambiano da un giorno all’altro e chi ti ha seguito il giorno prima e conosce la tua malattia viene sostituito l’indomani da un altro a cui devi spiegare tutto di nuovo», lamenta Saphir. «Noi ci rendiamo conto che la Croce rossa lavora con la carità, ma qui ci sono persone gravemente ammalate – continua -. Un altro ragazzo africano è morto qualche mese fa a Trapani. Per il momento siamo pacifici ma, passate due settimane, se il corpo non sarà in Pakistan, africani, pakistani, bengalesi e tutti gli altri saranno pronti a dimostrare con noi». Una tregua che scadrà tra un paio di giorni. «Trasferire un corpo all’estero è un’operazione complicata che richiederà almeno un mese – risponde Gabriella Salvioni -. Ho promesso che avrei fatto il possibile e lo stiamo facendo. Della questione si sta occupando anche l’attuale gestore del centro, la Sisifo».
Mujahid Alì era un trentaseienne originario di Lahore, la seconda città del Pakistan. Prima di arrivare in Italia, ha passato tre mesi in Libia, proprio nel periodo in cui iniziavano le rivolte, e già da otto mesi si trovava a Mineo. Non era sposato e la sua famiglia è composta unicamente da una sorella vedova – che vive nella sua casa a Lahore con le figlie – e dal padre anziano. Entrambi sono quotidianamente in contatto con la comunità pakistana di Mineo.
[Foto di Antonello Mangano]
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