Mille splendidi soli ed un’eclissi

È difficile pensare ad un Amury Cambuzat con occhi iniettati di sangue, barba di un mese e sfinito dalle capriole dei suoi pensieri. Rabbioso, intrattabile, con un sacca a tracolla, qualche biglietto di treno e senza una meta. Proprio non lo si riesce a immaginare avvitato in un esaurimento nervoso, lui che è un uomo sempre così solare, che ha fatto della musica indipendente la sua filosofia di vita e che quindi ha tempo per tutti, spazio per tutti, musica per tutti. Un artista sorridente, sornione, Amaury, che chiede scusa ogni due parole se il suo italiano non è perfetto come vorrebbe.
 
E intanto c’è mancato poco che non la facesse finita. «La raccolta “Ulaanbataar” di due anni fa –racconta – poteva essere una sorta di mio testamento, di sepoltura». Amaury aveva smarrito del tutto «il senso della vita» e il percorso che i suoi Ulan Bator avrebbero dovuto tracciare nel dopo “Rodeo Massacre”, ultimo disco licenziato nel 2005. Forse per via di quel burrone nel quale hanno trovato il vuoto praticamente tutte le realtà indipendenti del rock, chiamato: crisi del mercato discografico. Forse per quell’amicizia bruscamente interrotta con Olivier Manchion – l’altra anima della band parigina sin dai suoi esordi nel 1993. Forse semplicemente per un normale languore di mezz’età che stenderebbe chiunque. Amaury ha vagato tanto, diversi mesi, «diciotto per l’esattezza». Poi è tornato e ha provato a non pensarci lasciandosi coccolare dai concerti con Jean Hervé Peron e Zappi Diermaier, i Faust. L’esperienza a fianco dei terribili zii del kraut rock gli ha dato il tempo per riflettere, avvolto tra una session di avanguardia e l’altra.
 
Così, la rinascita. Via gli occhiali scuri e ritorno alla vita. Amaury fonda la Acid Cobra Records portandola a Londra. Un’etichetta tutta sua, «in questo modo non me la devo prendere con nessuno se il lavoro non mi piace». In testa ha solo la restituzione al pubblico degli Ulan Bator. Ci mette sei mesi e lo fa grazie all’aiuto di James Johnston (già con Nick Cave), Rosie Westbrook (al contrabbasso con Mick Harvey) e naturalmente Alessio Gioffredi, il bravissimo batterista toscano che lo accompagna dal 2006. Il risultato è l’ep “Soleils”, uscito a metà aprile, che è il gustosissimo antipasto del disco “Tohu-Bohu” (confusione in italiano) che vedrà la luce a novembre.
 
In “Soleils” c’è un’eclissi in copertina, «foto scattata da Jérôme Sevrette, un fotografo bretone che adoro» e il passaggio da luce a tenebra e poi di nuovo luce è magnificamente suonato dai riff agrodolci della chitarra e dalla morbida cadenza di una ballata abbagliante come la title-track. «Ho voluto come titolo “sole” al plurale – volteggia Amaury – anche per prendere coscienza del fatto che non ci sia solo il nostro sistema solare, ma altri, questo rappresenta anche una speranza in ciò che è sconosciuto». Le canzoni “Univers” e “Ephemere”, universo ed effimero, vanno da sé.
 
Un pugno di brani, quelli di “Soleils”, che la band assortita un po’ francese, un po’ italiana, un po’ anglosassone porterà in giro per l’Italia. E venerdì è stata la volta di Catania alla Sala Lomax. Una città, la nostra, che conosce bene Amaury, dato che i suoi Bator le hanno offerto spesso la propria musica nei precedenti tour. Catania che è luogo di sole e di “tabou” (dal titolo dell’ultimo, struggente, pezzo dell’ep), Catania che, ne siamo certi, è stata felice di riabbracciare Amaury di ritorno dall’inferno.

Riccardo Marra

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