Migranti, tanti minori ma pochi trovano famiglia Storie di affido: «È come se fosse figlio nostro»

«Sembra paradossale, ma avere attraversato il Mediterraneo a bordo di un gommone con la gamba ferita da un colpo di pistola, si è rivelata un colpo di fortuna. La fortuna di essere trasferito d’urgenza da Lampedusa in ospedale dove il destino ci ha fatto incontrare. Ora per noi è come un figlio e non penso che ci separeremo mai». Questa avventura incredibile ha per protagonisti due grandi combattenti: da una parte Ousseni, giovane ventenne della Guinea Bissau, partito dalla Libia due anni fa per sfuggire alla povertà. E Giovanni Farro, medico del Civico di Palermo che ha incontrato in ospedale il giovane gravemente ferito, allora neanche 18enne, e da allora non l’ha più abbandonato. La loro storia non è un caso isolato, ma simile a quella di alcune famiglie palermitane che hanno deciso di intraprendere un percorso coraggioso – di affido o appoggio familiare – per aiutare i minori stranieri non accompagnati che ogni anno sbarcano sulle nostre coste.

Un fenomeno in crescita nel capoluogo: solo nel 2017 sono arrivati circa mille minori mentre quest’anno sono 400 quelli ospitati nelle strutture di accoglienza del Comune. Ma l’amministrazione non può fare tutto da sola e alcune famiglie hanno deciso di dare una mano, attraverso un percorso generoso di accoglienza. Aprendo le proprie case a questi ragazzi, come nel caso dell’affido, o offrendo un po’ del proprio tempo per accompagnarli in un percorso di inserimento – le famiglie di appoggio – supportandoli nello studio, e nelle spese mediche. Un modello, tuttavia, che stenta a decollare – attualmente sono 6 i nuclei familiari affidatari e 15 quelli di appoggio, mentre 80 i tutori – e che il Comune cerca di spingere anche con incontri informativi come quello di ieri pomeriggio su Affidamento familiare e famiglie di appoggio per minori stranieri non accompagnati, promosso dal centro Astalli (091.9760128; astallipa@libero.it) e l’istituto Gonzaga, in prima linea nell’accoglienza integrata.

«Lui è una roccia, ma quando penso che ha sostenuto la fatica del viaggio con un laccio legato intorno alla gamba per arrestare l’emorragia mi sembra incredibile – prosegue Giovanni che ha scelto il percorso della famiglia di appoggio – Da allora mi sono preso cura di lui, e a breve lo accompagnerò a Roma per operarsi al femore e al ginocchio, ormai anchilosato». La notte della partenza dalla Libia erano in 50 sul gommone, molti spaventati e gli scafisti, per farli smettere, hanno sparato nel mucchio, ferendolo. «Da allora mi occupo delle sue cure sanitarie. Abbiamo un ragazzo di 16 anni, ma a livello umano si è creata una relazione gratificante da tutti i punti di vista, e cerchiamo di intercettare i suoi bisogni come se fosse figlio nostro. Non penso che ne usciremo più – aggiunge ridendo – è ancora un po’ timido, però sa che si può fidare. Quando è iniziato non sapevo dove mi avrebbe portato quella scelta, ma oggi so che non potrei più tornare indietro». 

C’è anche il tempo per la testimonianza di Sonia, assistente sociale che da due anni e mezzo, assieme al compagno, hanno aperto le porte della propria casa a Amarà. Il ragazzo aveva appena 12 anni quando si sono incontrati. «Quando l’ho conosciuto nella comunità di accoglienza che lo ospitava, ho capito che aveva bisogno di un’attenzione particolare. Allora gli ho chiesto se gli piacesse disegnare, e ogni giorno lui mi aspettava per darmi un disegno da appendere alla parete». I genitori sono morti, ma in Mali ha lasciato tre fratelli, un maschio e due femmine. E ora Sonia e il suo compagno hanno deciso di avviare l’iter per il ricongiungimento familiare internazionale con i tre fratelli di Amarà

Non si tratta di casi isolati, come testimonia Laura Purpura, responsabile dell’unità organizzativa Affidamento familiare del Comune di Palermo (per info 091.581018 – 0916093203, affidamentofamiliare@comune.palermo.it). «Si tratta di ragazzi dai 13 ai 17 anni, provenienti da Paesi molto spesso poveri, o percorsi da gravi tensioni interne – spiega – Questi ragazzi partono per migliorare la loro vita, ma rimane sempre un legame di solidarietà con i Paesi che lasciano. La permanenza di questi ragazzi deve essere volta all’autonomia: ne ho incontrati tanti ma nessuno mi ha mai chiesto di tornare a casa perché sanno che i loro cari hanno impegnato tutto per pagare loro il viaggio. Ricordiamoci che questi minori non hanno una famiglia, o perlomeno l’hanno nella testa e nel cuore ma non qui. Se il minore va in affido diventa parte di quel nucleo familiare – conclude – Per questo è importante farsi avanti e aiutarli».

Antonio Mercurio

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