Migliore, un uomo per bene

Giacca, cravatta e una ventiquattrore. Un uomo normale, un uomo per bene, gentile in maniera disarmante, sempre pronto a rispondere alle richieste della boriosa clientela della “ Happy Life”. Gentilezza e sottomissione per essere il ‘Migliore’. Dire sì e sottostare alle richieste più assurde, alle pretese più viziate, perché ‘è bello anche così ’. Un incidente, l’omicidio, e l’assoluzione.
Questa in qualche battuta la trama essenziale dello spettacolo ‘Migliore’ interpretato da Valerio Mastandrea e scritto dal giovane autore teatrale Mattia Torre. Dalle scale bagnate e da un gesto di eccessivo zelo e bontà d’animo parte il cambiamento del protagonista. Un cambiamento radicale che finalmente chiuderà quel buco interiore che Alfredo, il protagonista, porta con se da sempre. Da quell’ incidente parte la reazione e il mutamento dell’essenza di un uomo. Iniziano i no e la gente comincia ad avere rispetto o paura. Con la divisa dell’efficienza, la compostezza dei gesti minuziosamente eseguiti, dall’interpretazione pungente, sarcastica e ottima, nasce una messa in scena perfetta. Uno spettacolo che lascia sgorgare il riso amaro della verità contemporanea. Le luci fisse che illuminano la scena in contrasto con la presenza vocale di tutto il nugolo di esseri umani che girano attorno ad Alfredo, rendono ancora più vera la solitudine del suo protagonista. Musiche forti a scandire i passaggi temporali e i quadri scenici. Vampate di luci rosse sottolineano i momenti di tensione narrativa e tutto lo spettacolo si snoda in un miscuglio di riso amaro e chock. Questo è ‘Migliore’ in scena al Teatro Muso di Catania fino a domenica 25 febbraio.

E questo è quello che Valerio Mastandrea ci ha raccontato dello spettacolo durante la conferenza stampa:

“E’ uno spettacolo a cui la gente reagisce in maniera differente e libera a seconda della sua generazione. C’è la generazione dei cinquantenni che reagisce duramente e in maniera sofferta. Una trasformazione che, probabilmente essi stessi hanno vissuto. Poi c’è un altro tipo di generazione, quella dei ragazzi, dei giovani, che vive la vicenda come una liberazione. Il personaggio diventando cattivo si riprende quello che non ha mai chiesto o che gli hanno sempre tolto. E’ un messaggio, se di messaggio si può parlare, che viene interpretato in maniera personale. E questa è una cosa affascinante, abbiamo voluto raccontare come quanto più si è infami e tanto più la gente è affascinata da ciò. Se il testo avesse puntato il dito, probabilmente non mi avrebbe affascinato così tanto. Invece è bello proprio questo lasciare in bilico il personaggio, questo renderlo simpatico anche quando uccide il cane, un gesto grottesco ma comunque terribile’’.

Come è nato questo testo e come ti sei preparato tu come attore per questo monologo?

L’incontro è stato casuale. Mattia ha sempre lavorato nei piccoli teatri romani, che sono dei veri e propri gruppi, clan. Ci siamo incontrati e lui mi ha chiesto se avessi avuto il piacere di interpretare un monologo scritto da lui. Conoscevo lui e conoscevo un altro suo monologo, interpretato da un altro attore. E’ nato così questo spettacolo. Inizialmente io ho rifiutato molto, infatti non mi aspettavo niente di simile. Abbiamo un po’ discusso, sebbene lo conoscessi da poco, e poi lavorandoci abbiamo destrutturato il copione. Abbiamo prima lavorato sulla forma, poi siamo entrati dentro il testo in concreto, poi abbiamo fatto una regia essenziale. Comunque è un lavoro in progress. Continuo a provare delle cose, non per ciò che riguarda il testo ma nella regia. L’autore dice di averlo scritto su di me e io l’ho cucito addosso, poi insieme abbiamo trovato le cose da fare. Un lavoro di squadra dunque.

 

Come sei riuscito a conciliare la mobilità del testo con la staticità fisica?

E’ stata una scelta, una scommessa. Cercare di far vivere tutto quello che questo personaggio racconta dedicando al tempo e all’interpretazione lo spazio che necessitava. Comincio adesso e forse un po’ troppo tardi, ad avere voglia di esprimermi mimicamente, solo con i movimenti della faccia. Emotivamente uno spettacolo di questo genere comporta della fatica, una fatica tremenda. Ma è una scelta ben precisa, sebbene sia nata per caso ma l’intento era quello di legare la parola all’intenzione. Non dargli una scenografia, per esempio, significare non lasciare vedere tutto. Lasciare che la gente captasse i segreti di Alfredo e molti ci sono riusciti.

Ti ha cambiato questa esperienza teatrale e sul piano artistico e nel piano personale?

Io, parallelamente al mio primo film indipendente nel ’93, cominciai a fare uno spettacolo in piccolo teatro di Roma. Ho capito subito lo spirito con il quale affrontare il teatro, la differenza rispetto al cinema. Il teatro è una cosa da mantenere, da rispettare con grande abnegazione. Poi quando ho interpretato Rugantino al Sistina, ho capito molto a livello personale. Un salto nel mondo adulto, nel lavoro. Uno spettacolo che è come una gabbia, se dovessi dirlo in termini cinematografici direi uno spettacolo con un copione di ferro. Ero lì e dovevo stare lì. L’unica cosa che mi affascina dell’apparente ‘monotonia’ del teatro è la possibilità che da nello sperimentare. Però non deve essere un alibi per non dovere ammettere che io non riesco a fissare le cose. Continuo a pensare che il teatro sia una delle ultime possibilità che ci permette di fare  cose di questo tipo. Il teatro mi aiuta sì,  mi aiuta a riflettere.

Senti la mancanza di un teatro impegnato politicamente?

Sì, un teatro politico, inteso come rappresentazione e non di appartenenza, di schieramento. Di teatro impegnato c’è solo la presenza di alcuni grandi, Ascanio Celestini, Dario Fò, Paolo Rossi. Gli altri, le nuove generazioni hanno poco spazio. Ne viene dato poco. O viene ghettizzato nei piccoli teatri che dicevo prima o non emerge.

La messa in scena dello spettacolo sembra trasmettere una regia quasi cinematografica. Sembra quasi di vedere gli scatti frame dopo frame, malgrado l’assenza di scenografia. Pensi sia possibile una trasposizione cinematografica dello spettacolo, come film o  come cortometraggio?

Ci stiamo pensando. Infatti ci stiamo interrogando su questo. Il linguaggio teatrale è uno, quello teatrale un altro. A teatro il paradosso è accettato se raccontato, nel cinema è più complesso. Nel passaggio cinematografico, però, potrebbero subentrare delle componenti, delle immagini, che solo il cinema ti permette di usare.

Riprendendo una battuta di uo dei tuoi primi film, ‘Cosa si sente quando si spara?’, ti chiedo cosa si sente quando le luci si spengono e si alza il sipario?

E’ più forte che sparare.

Loretta Bonasera

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