Lo straniero che bussa alla porta fa veramente così paura? Chi è e, soprattutto, costituisce davvero un pericolo per la società? La risposta, o una delle risposte possibili, arriva da una storia d’integrazione a lieto fine scritta e interpretata a Messina. Una storia portata sul palcoscenico ma autentica come i suoi protagonisti. Fra questi, cinque ragazzi maliani sbarcati in riva allo Stretto e ospitati nel centro di accoglienza per minori non accompagnati Ahmed. Una storia che per sei giorni ha fatto registrare il tutto esaurito e che adesso la compagnia Daf – Teatro dell’esatta fantasia, artefice dell’iniziativa, intende esportare nel resto d’Italia.
L’iniziativa rientra nei laboratori organizzati nelle scorse settimane e culmina con Vento da sud est, spettacolo diretto da Angelo Campolo, giovane attore e regista diplomato al Piccolo di Milano e allievo di Luca Ronconi. Un omaggio a Teorema, di Pierpaolo Pasolini, del quale, a circa mezzo secolo di distanza, si riprendono e attualizzano le tematiche. Sul palcoscenico della sala Laudamo, il ridotto del teatro Vittorio Emanuele, domina una porta alla quale lo straniero bussa con insistenza. Presentandosi in carne e ossa al pubblico, con la faccia di Gotta Juan Dembele, Glory Aibgedion, Ousmane Dawara, Moussa Yaya e Camara Mohammud. Partiti dal Mali e sbarcati a fine agosto, fanno parte di una famiglia di otto cugini persisi durante il viaggio e ritrovatisi proprio nel capoluogo peloritano.
«Perché sono partito? L’esilio non conosce la dignità – dicono durante la rappresentazione – per aver da mangiare cambi religione, per avere da bere perdi il rispetto. L’esilio non conosce la dignità. Non c’è niente davanti quando sei nel deserto, tutto è alle spalle come una vita che non ti è appartenuta. L’esilio non conosce la dignità, non conosce la fatica, il sole, il freddo, la prigione. Bisogna avere pazienza, modestia, coraggio, tolleranza». Senza nessuna esperienza teatrale alle spalle, questi ragazzi, al momento ospiti del centro Ahmed, hanno permesso agli spettatori di guardare dritto negli occhi lo straniero. E di comprenderne, sebbene solo in minima parte, il dramma. Quando non la tragedia. E a scuotere la coscienza fino agli anfratti più reconditi è la verità che, senza vergogna ma con grande fierezza, rivelano ai presenti. Ognuno dopo aver scandito il proprio nome, il proprio cognome: «Ero destinato a morire».
A completare il cast, gli allievi del laboratorio del Daf: Michele Falica, Patrizia Ajello, Luca D’Arrigo, Giuliano Romeo, Claudia Laganà e Antonio Vitarelli. La drammaturgia è di Campolo e Simone Corso; le coreografie di Sarah Lanza; scene e costumi di Giulia Drogo; le musiche del maestro Giovanni Puliafito. È Campolo a ricordare l’impegno di questi giovani stranieri che sul palco si sono espressi in Italiano, dopo averlo «imparato con abnegazione e impegno in soli due mesi da quando sono sbarcati». Parlano – prosegue – «con la lingua del teatro fatta di musica, corpo e ritmo, che ho avuto il privilegio di insegnare loro, ospiti del nostro laboratorio».
Vento da sud est è andato in scena dal 6 all’8 e dal 13 al 15 novembre scorsi: «Abbiamo sempre registrato il tutto esaurito – racconta Giuseppe Ministeri, presidente del Daf – domenica scorsa c’erano una cinquantina di persone in piedi. Molte le abbiamo dovute rimandare a casa». Una risposta incoraggiante, data la volontà di esportare questo «format», approfittando delle opportunità offerte dai bandi del ministero dell’Interno o dell’Agenzia nazionale per i giovani: «Abbiamo sperimentato questa cosa che non mi risulta abbia eguali in altre parti d’Italia. Non è il solito laboratorio che si fa nei centri di accoglienza. Abbiamo fatto sentire questi ragazzi protagonisti di un progetto e ne abbiamo fatto degli attori veri e propri».
Lo scopo adesso non è di portare avanti lo spettacolo: «È impossibile visto che questi ragazzi partiranno. Piuttosto, intendiamo lavorare su questo format, andare in posti come Mineo, Lampedusa, la Calabria, dove ci sono grossi centri di accoglienza, e proseguire con questa esperienza di integrazione culturale attraverso il teatro. Facendo partecipare queste persone a un lavoro vero e non a un’attività loro dedicata, capace di farle sentire ghettizzate. Oggi è toccato a Pasolini, domani a Italo Calvino, Eugenio Montale, Alessandro Manzoni. Tutto è finalizzato a una messa in scena vera e propria con una partecipazione alla pari. Così abbiamo inteso l’integrazione. Non un approccio assistenziale ma uno spettacolo come gli altri, con dei giovani migranti come attori».
«Alla porta qualcuno continua a bussare – conclude Campolo – avremo il coraggio di aprire?».
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