Ci sono gli affari di una costola riconducibile al clan Spartà al centro dell’operazione Polena, che ha portato all’arresto di otto persone. Nonostante sia detenuto in carcere dal 25 marzo del 2003, secondo la procura, il boss della zona sud di Messina, Giacomo Spartà continuava a gestire gli affari del clan attivo nel racket dell’usura e delle estorsioni a commercianti ed avventori di sale scommesse. I soldi ricavati servivano per alimentare la cassa comune della consorteria.
Le indagini scattano nell’ottobre 2014. Il nucleo investigativo dei carabinieri, coordinato dai sostituti Liliana Todaro e Maria Pellegrino, sulla scorta delle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Daniele Santovito, accerta i rapporti tra Raimondo Messina e gli appartenenti alla famiglia Spartà. Messina avrebbe preso le redini del gruppo criminale, come dimostra la visita a casa fatta dalla moglie di Spartà, in occasione della cessazione della semilibertà cui Messina era sottoposto. E anche gli incontri tra quest’ultimo e Antonio Spartà, fratello del boss detenuto, confermano il ruolo di Messina all’interno del gruppo. Al vertice, oltre a Raimondo Messina, ci sarebbe che Gaetano Nostro, entrambi in questo momento già detenuti per altra causa.
Messina, insieme a Maurizio Lucà, vengono indicati come uomini di fiducia di Giacomo Spartà dal collaboratore Daniele Santovito. Lucà viene arrestato due settimane dopo l’inizio delle indagini dai carabinieri nell’operazione Alexander, del 9 dicembre 2014 e risulta indagato nell’operazione del 24 febbraio 2015, per riduzione in schiavitù di un bambino romeno. Ma due settimane sono sufficienti agli investigatori per accertare i suoi rapporti con Antonio Cambria Scimone e, quindi, quelli di quest’ultimo con lo stesso Messina. Emerge così che lo stesso Messina gestiva la cassa comune del gruppo, alla quale attingeva anche per il sostentamento dei detenuti e delle loro famiglie.
Il denaro arrivava dalla principale attività del gruppo, che interferiva e condizionava l’attività di alcuni imprenditori messinesi, «non solo imponendo assunzioni di personale indicato dai sodali, ma anche imponendo loro le scelte imprenditoriali». Per eliminare del tutto la concorrenza al bar il Veliero, riconducibile a Saro Messina, e base logistica del gruppo, un pasticcere sarebbe stato obbligato ad interrompere la vendita di bibite e caffè all’interno alla propria pasticceria, adiacente al bar, perché faceva diminuire gli introiti. In un’altra occasione un imprenditore attivo nel settore del commercio all’ingrosso di prodotti alimentari, «è stato costretto con violenza e minaccia ad interrompere le forniture di carne e lavorati di macelleria ad alcuni ristoranti cittadini per favorire la nascente attività di macelleria di uno degli indagati». Parallelamente è stata accertata dalla procura la consuetudine del gruppo di «imporre l’assunzione presso i loro esercizi commerciali, di parenti e conoscenti degli indagati, oltre che di impedirne il licenziamento».
Altra attività dell’associazione mafiosa anche le estorsioni ai giocatori, frequentatori di alcune sale gioco cittadine controllate dalla stessa consorteria. È stato documentato, infatti, come in un caso «alcuni degli odierni indagati abbiano costretto il titolare di una sala scommesse a cedere loro la proprietà, a causa delle difficoltà economiche dallo stesso palesate, pretendendo anche il pagamento della somma di cinquemila euro, per una serie di giocate effettuate con denaro a credito delle società di scommesse (che lo stesso aveva effettuato quando era titolare dell’esercizio commerciale)».
Ma durante le indagini ben più incisive sono risultate le modalità con le quali i giocatori sono stati costretti a pagare i debiti di gioco contratti con i gestori delle sale. Il debitore veniva esplicitamente minacciato di violenza e ritorsioni fisiche, «ti spezzo le gambe», se la minaccia si rivelava infruttuosa, «i sodali facevano esplicito riferimento alla propria fama criminale nonché alla loro appartenenza all’associazione mafiosa» riuscendo a recuperare i presunti crediti vantati, che variavano tra i tremila e i diecimila euro.
Tanti gli episodi di usura documentati. I carabinieri sono riusciti a dimostrare come una commerciante cittadina, frequentatrice di una delle sale giochi finite nel mirino degli investigatori, a fronte di un debito contratto ad un tavolo da poker illegale, pari a circa seimila euro, sia stata costretta a versare inizialmente diecimila euro in contanti, poi a consegnare un anello del valore stimato in seimila euro ed infine un orologio di una nota marca svizzera del valore di quattromila euro.
E tra gli episodi finiti nelle indagini, che documentano come il gruppo fosse dedito all’usura, c’è il caso di una commerciante, titolare di una nota gioielleria cittadina, che per far fronte a piccoli debiti con i fornitori per un importo totale di quattromila euro, ha dovuto consegnare in sei mesi la somma di 8.500 euro, di cui 4.500 a titolo di interessi. Non contenti, alcuni degli odierni indagati hanno costretto l’imprenditrice a consegnare anche alcuni preziosi, per un controvalore commerciale complessivo di ulteriori mille euro. La stessa, incoraggiata dall’essere riuscita a far fronte alle pretese degli usurai, ricorreva agli stessi usurai anche in altre occasioni: in particolare in una circostanza, a fronte di un prestito iniziale di due mila euro, in sei mesi ha dovuto consegnare 4.500 euro mentre in un’ulteriore episodio ha richiesto un prestito di 5.500 euro restituendone, entro trenta giorni, novemila.
In manette sono finiti:
Angelo Bonasera, 52 anni, attualmente detenuto presso il carcere di Messina Gazzi
Antonio Calió, 34 anni
Giuseppe Cambria, 46 anni
Antonio Cambria Scimone, 70 anni
Tommaso Ferro, più conosciuto come Masino, 41 anni
Lorenzo Guarnera, 57 anni, detenuto presso il carcere di Caltanissetta per altra causa
Raimondo Messina, detto Saro, 45 anni, detenuto presso il carcere di Milano-Opera, per altra causa
Alfio Russo, detto Massimo, 47 anni, ristretto ai domiciliari
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