Maredolce, mille anni di storia invisibili Simbolo di degrado e riscatto della città

Un paesaggio da Mille e una notte obliato, inghiottito dal cemento e dall’incuria, che oggi faticosamente si cerca di restituire al suo antico splendore. È il destino del giardino di Maredolce, a Brancaccio. Un luogo magnifico, 25 ettari che profumano di civiltà antiche, di Arabi e di Normanni. Più di mille anni di storia che nel secolo scorso sono stati deturpati, circondati da costruzioni abusive e occupati al di fuori di ogni regola. Da vent’anni, la soprintendenza di Palermo conduce una battaglia silenziosa per il suo ripristino. Ancora oggi, però, gli occupanti abusivi non vogliono sapere di andar via, nonostante gli espropri. Per completare i lavori, infine, servono 2,5 milioni di euro. Non molto, in fondo, per un luogo che è già inserito nella lista dei futuri beni Unesco e potrebbe rientrare a buon diritto nel percorso Arabo-Normanno della città. Le risorse, tuttavia, scarseggiano, e fino a oggi sono stati vani i tentativi di accedere ai fondi europei.

«Questo luogo era diventato invisibile alla città, perché tutto intorno avevano costruito case per nasconderlo – ha detto a MeridioNews Lina Bellanca, la responsabile del settore Beni architettonici  della soprintendenza di Palermo che si occupa dei lavori di restauro dal 2010 -. Dentro, poi, era stato trasformato in una sorta di falansterio, vi abitava persino il pentito di mafia Totuccio Contorno». Recentemente, è stata espropriata anche una casa di proprietà di Gaspare Spatuzza, nel quartiere Brancaccio. «Era un luogo facile per nascondersi e fuggire perché a ridosso delle campagne – ha proseguito -. Finalmente abbiamo portato a termine il processo di esproprio e ora è aperto a tutti durante la settimana ora cerchiamo fondi e assistenza da parte della collettività che ci aiuti nel percorso di recupero del sito. Ancora non è sufficientemente valorizzato e avrebbe bisogno di ulteriori interventi». A maggio, intanto, il giardino ha ricevuto il prestigioso Premio internazionale dalla Fondazione Benetton “Carlo Scarpa per il Giardino”, come riconoscimento per l’impegno profuso dalla soprintendenza e con la motivazione che il luogo «conserva la memoria e le testimonianze tangibili di ciò che è stato il paesaggio nella civiltà araba e normanna in Sicilia».

Maredolce, infatti, è una fortezza di origine araba, riedificata ai tempi di re Ruggero II come edificio extraurbano in prossimità delle sorgenti di San Ciro, sotto il monte Grifone. Nel primo decennio dell’anno Mille, fu sbarrato il corso delle acque provenienti dal monte per realizzare il lago artificiale di Favara-Maredolce e l’omonimo castello che lo ornava, entrambi opera dell’emiro Giafar. Un piccolo paradiso che conquistò letteralmente il re normanno, il primo re di Sicilia. Dopo aver sconfitto gli Arabi e conquistato Palermo, i normanni fecero di quel lago e del castello di Favara (fawwara, in arabo, significa sorgente) il centro del divertimento della corte. Le fonti alimentavano uno specchio artificiale, in modo tale che il re potesse raggiungere l’isolotto al centro del lago. L’isolotto c’è ancora ma come il castello è stato stravolto nel corso dei secoli, svuotato e poi colmato di terra per far spazio agli agrumeti che ancora oggi lo sovrastano.

«Il restauro è stato realizzato in più tranche – ha proseguito Bellanca – e la difficoltà più grande è stata liberare gli spazi dagli abitanti. Alcuni locali sono ancora occupati abusivamente e anche con la forza è difficile portar via le persone, pur avendo il titolo per farlo». L’intenzione, ad ogni modo, è di ripristinare l’antico paesaggio: una parte del lago è stato liberato dal terreno e ora potrebbe essere riempito, dopo mille anni, impermeabilizzandone il fondo. E’ già previsto nei prossimi interventi e dovrebbe aver una estensione di 10 ettari. In origine era molto più grande, abbracciava su tre lati il castello e arrivava fino alla montagna. Le parti della diga realizzate in cocciopesto, risalenti al dodicesimo secolo, sono ancora visibili e dal caratteristico color rossastro e venivano chiamati gli argini rossi. 

Insomma, tanta strada è stata fatta in questi ultimi vent’anni ma rimane ancora molto fare, senza contare la caparbia ostilità degli abusivi. «Il fatto che nessuno abbia mai denunciato gli abusi e ancora adesso siamo gli unici che se ne occuppano, la dice lunga – ha concluso amareggiata -. Ad ogni modo sono fiduciosa. Oggi il giardino è un po’ una metafora della città, simbolo del degrado di Palermo ma anche del suo riscatto che viviamo negli ultimi dieci anni a questa parte».

Antonio Mercurio

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