Maniacalmente Manics

 

Avete presente quella sensazione?

Come? Quale?

State spostando avanti e indietro quella lineetta sul canale FM della vostra radio (siete quindi rimasti a corto di Ipod, lettori Mp3 di qualsiasi tipo, Cd-Compilation dei vostri miti musicali ecc) quando tra un bzzzz e un fzzzz di una stazione di solomusicaitaliana e un’altra di solograndisuccessi che subito si dissolve in quella successiva ecco che il vostro tuner si sintonizza improvvisamente su un riff, su una linea di basso, su un assolo di chitarra, su una melodia particolare….

Eccola… la sensazione dico.

Vi è bastato meno di un secondo, poco più di due plettrate dello stesso accordo, per riconoscere la canzone, il cd, l’anno, il concerto (e se la radio è di ultima generazione anche il numero di spettatori presenti) della vostra band o artista preferito. Pardon, di uno dei vostri preferiti, perché come fai a dire chi fu più grande tra Jimi Hendrix, Joe Strummer, o altri mostri del genere, senza contare “precursori” come Tchaicovsky…

Comunque, tornando alla sensazione. Se si verifica allora si dice che la band in questione ha uno stile tutto suo, immediatamente riconoscibile. E se una cosa, qualsiasi, è immediatamente riconoscibile vuol dire allora che è anche immediatamente non riconoscibile in qualcosa di diverso, separabile da quello che non rappresenta, quello nel quale non vuole farsi immediatamente riconoscere. Questa, modesto parere, è l’anima del rock. O almeno dovrebbe esserlo.

Cosa c’entra tutto questo con i Manic Street Preachers e il loro ultimo lavoro, direte, non trovando tra questa sequenza di righe uno straccio di recensione musicale, di tracklist, di commento a una canzone? C’entra eccome, perché tra i tanti gruppi che sono in grado di farsi immediatamente riconoscere ci sono loro. C’è attesa per il loro “Journal for plague lovers”, nono album in studio, pubblicato a distanza di due anni dal chiacchierato “Send Away The Tigers” che guadagnò degli ottimi piazzamenti nelle charts britanniche e statunitensi (ottenendo anche diversi passaggi in radio nel nostro Paese, cosa alla quale non eravamo abituati) ma considerato poco aggressivo, poco rock. Un disco costruito apposta per piacere a un vasto pubblico, si dirà.

Che poi, intendiamoci, avere uno stile non significa rimanere sempre uguali a se stessi. Tutt’altro. E i “Predicatori Maniaci di Strada” non fanno eccezione. Esempio? Perdetevi nelle tastiere e nelle linee melodiche sognanti di “I live to fall asleep” e poi svegliatevi con tutta la forza, l’energia quasi punkrock, l’ossessività della batteria di “Intravenous Agnostic”. Sono sempre loro, a distanza di un cd, “Lifeblood” (2004) contro “Know your enemy” (2001).
 
Questo è un gruppo con una storia particolare.

A marcare la prima differenza c’è la solidità e la compattezza dei componenti, sempre gli stessi dagli esordi, nessun avvicendamento. O meglio, a dire il vero un cambiamento c’è stato, doloroso e quasi destabilizzante ai fini della sopravvivenza dei nostri.

Facciamo un passo indietro, allora.
 
La lineup prevede James Dean Bradfield (voce e chitarra), Nicky Wire (basso), Sean Moore (batteria) e Richey James Edwards (chitarra ritmica). Vanno avanti dal 1986 al 1995, inanellando veri capolavori a progetti meno acclamati. Da “Generation Terrorists” a “The Holy Bible” per diventare una di quelle band che si definiscono “cult”. In un periodo nel quale il rock dei Manics (fortemente punk e arrabbiato agli esordi), si confronta con il “grunge”, agli albori, dei Nirvana.

Kurt Cobain, il biondo cantante della band di Seattle, sembra essere un ottimo spunto di confronto con il gruppo gallese. Com’è possibile, direte, mettere a confronto il testo di Smells Like Teen Spirit e la crisi interiore, personale, esistenziale di un Kurt Cobain prossimo a una fine tragica, con quello di uno dei must dei primi Manics, come “Ifwhiteamericatoldthetruthforonedayit’sworldwouldfallapart”, esempio di come Wire e Edwards (autori di quasi tutti i testi) siano poco, anzi per nulla propensi a ogni compromesso – i Maniac sono dichiaratamente di sinistra, contro la politica imperialista statunitense e al fianco dei lavoratori tanto che “A Design For Life” (di cui vi consigliamo anche di vedere il suggestivo video) è diventata una specie di inno ufficiale dei lavoratori del Regno Unito?

 

C’entra eccome, anche stavolta. Magari il confronto non è da fare proprio tra le band, ma tra due storie. Quella di Kobain e di Edwards, non a caso considerato dalla stampa di allora come “una sorta di Kurt Cobain”. Significativo, e sempre citato, un episodio che vide Edwards protagonista. Durante un’intervista, rispondendo alle accuse di non veridicità dei suoi testi, considerati da alcuni come espedienti per creare un personaggio si incise a sangue sul braccio la scritta “4Real”. Era la sua risposta. 

Richey James Edwards scompare letteralmente nel nulla il primo Febbraio del 1995, lasciando la sua camera in un albergo di Londra.

Due settimane dopo viene ritrovata la sua macchina nei pressi di una stazione di servizio, a poca distanza da un ponte sul fiume Severn, ponte “prescelto” dai suicidi gallesi.

Da allora nessuna notizia di lui, nessuna traccia, nessun cadavere. Solo la solita successione di presunti avvistamenti, mai verificati, utili a creare una leggenda attorno alla sua figura.

Dal 1995 ad oggi Bradfield, Wire e Moore passano da un possibile scioglimento a una nuova identità, pur sempre loro. Sfornano ben sei cd, riuscendo a rimanere ben oltre la linea di galleggiamento, trovando anzi la forza per un capolavoro assoluto come “Everything Must Go”, il primo album senza Edwards. Sono gli anni in cui la loro popolarità arriva alle stelle, consacrata oltre i confini britannici (dentro i quali si guadagnano il titolo di band più amata insieme agli Oasis).
 
L’ultimo lavoro li riporta indietro nel tempo. E questa è una gran bella notizia per i loro fan.

“Journal For Plague Lovers” e i testi delle 14 canzoni che lo compongono sono frutto della pubblicazione, attesa da anni, degli appunti e degli altri inediti di Edwards, lasciati prima di scomparire.

Non sembra azzardato, anzi spesso suggerito proprio dalla band, un confronto tra questo cd e quello che fu “The Holy Bible”, datato 1994. Nicky Wire considera questo come la prosecuzione del lavoro iniziato proprio allora. E proprio come allora, la splendida batteria di Sean Moore entra prepotente a squassare il ritmo ordinato della strofa precedente, per poi ritornare a fare da tappeto musicale alle melodie di James Bradfield (che non perde il vizio di confezionare i “suoi” assoli, funzionali come sempre e al solito corti quanto basta per averne ancora voglia). Wire osserva un turno di riposo in qualità di songwriter e si “limita” a suonare il basso, ma non riesce a resistere alla tentazione di cantare le parole del suo amico (i due erano molto legati) e allora si prende di diritto la significativa “Williams last words”. A confezionare il tutto ecco la produzione firmata niente meno che da Steve Albini, già grande produttore dei Nirvana (In Utero,1993) e non solo.

Da oggi, le parole che Richey scrisse più di quindici anni fa tornano a fare il giro del mondo (purtroppo, ancora una volta senza passare dall’Italia), grazie a suoi amici di sempre e al loro inconfondibile “sound”, pardon, stile.

Lo stile Manics.

Marco Pirrello

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