Manderlay: la cattiveria sociale


ANNO:
2005


PAESE:
Danimarca / Svezia


REGIA:
Lars Von Trier


CAST:
Bryce Dallas Howard
Isaach De Bankolé
Willem Dafoe
Chloë Sevigny
Danny Glover

Secondo episodio della trilogia dedicata alla realtà statunitense, Manderlay sorprende per la sua “cattiveria sociale” e per la riflessione filosofica che il regista cela sotto la storia. Dopo l’episodio “Dogville”, il primo attacco alla società americana, con il suo bigottismo e perbenismo di maniera, ecco un altro colpo alle radici stesse della nazione americana. La schiavitù e la libertà, concetti su cui si fondò, in modo del tutto contraddittorio, quello che poi sarebbe diventato lo stato più importante del mondo, qui si intrecciano e fanno da sfondo all’ennesima storia alla Von Trier. Ipocrisia, perbenismo, egoismo, e poi ancora sfruttamento, violenza e estorsione: queste le parole chiavi di una pellicola che la critica ha trovato troppo simile al primo episodio, e per questo considerato solo una copia, gia vista e “ribollita”. Ma è come se si dicesse che gli episodi seguenti de “Il Signore degli Anelli” non sono piaciuti perché troppo simili al primo. In realtà, il regista danese, autore di pellicole straordinarie, qui non si sconfessa affatto; anzi conferma la sua verve artistica capace di farci sentire vivi, presentandoci la vita.

Il secondo episodio è ambientato a Manderlay, una tenuta in Alabama. Sono passati settant’anni dalla fine dalla Guerra di Secessione, ma qui le persone di colore vivono ancora sotto l’egemonia dei padroni bianchi, il cui scettro è tenuto saldamente al potere da Mam, la proprietaria “padrona”, redattrice di un vero e proprio codice comportamentale degli schiavi. Grace, affascinata da questo stato delle cose, decide di rimanere e di illuminare, appena morta Mam, gli schiavi sui concetti di Libertà e Democrazia. Inizia bene la sua opera di civilizzazione e di inserimento sociale di questo gruppo “a parte”, ma la combattiva Grace sembra tralasciare, dall’inizio, particolari che ribalteranno tutto. Rispetto al primo episodio della trilogia, lo scenario è sempre dato da un pavimento dipinto con pochi set e arredi. Appare più spoglio con la prevalenza di colori chiari e nitidi. Ci sono poche pareti, niente porte, solo una staccionata di legno, alcuni tavoli, i cancelli, la grande quercia, un pozzo e un asino al mulino.

Forse è proprio l’ambientazione in uno spazio così ristretto e con poche persone, che permette al regista di sviluppare facilmente dinamiche relazionali perverse, contrappassi, quasi tipici di un universo dantesco. Suddiviso in otto capitoli, girato (come sempre dal regista) con la telecamera a spalla, il film procede lucido e spedito nel suo ricreare una sorta di fiaba priva di magia, in cui tutto è il contrario di tutto e in cui anche i disegni sul pavimento sono trappole o rebus, di cui spesso la protagonista non capisce (o non vuole capire) il significato più palese. Il secondo capitolo delle avventure di Grace è, allo stesso tempo, claustrofobico e militante. Von Trier insiste in maniera fagocitante sul volto fragile ma al contempo vulnerabile di Bryce Dallas Howard (sostituta di Nicole Kidman e figlia del regista Ron) e insiste anche nel voler mostrare la battaglia di questa donna nel portare avanti degli ideali pregevoli ma astratti.

Oltre all’apparente primo punto di discussione riguardante il razzismo, se ne innestano altri che in alcuni casi arrivano ad assumere un valore anche maggiore del primo: come il libero arbitrio che deve coesistere con la necessità di istituire e rispettare delle regole per la convivenza sociale. L’applicazione della democrazia, che una volta messa in atto porta alle estreme conseguenze e costringe chi l’ha promossa a compiere atti che non condivide in nome del rispetto di una norma sociale “superiore” (che si scontra dunque inevitabilmente con il concetto di libero arbitrio); la pena di morte, che viene messa in atto per volontà popolare proprio “grazie” alla democrazia. Il senso di colpa dell’occidente che perseguita Grace quando decide di non considerare gli abitanti di Manderlay come singoli individui ma come vittime della schiavitù, privandole del concetto di libero arbitrio e rendendole sempre oggetti che subiscono senza una capacità propria di discernere e interagire. Così facendo, in una sorta di paradosso, Grace cade nell’errore che fin dall’inizio cerca in tutti i modi di evitare e di combattere (considerare gli individui nient’altro che inanimati elementi appartenenti a categorie specifiche, nient’altro che numeri).

L’obiettivo, come in “Dogville”, è palese: riprodurre la cellula comunitaria in vitro, isolarne le componenti virali. Una radiografia impietosa di un sistema di oppressione e umiliazione, in una parola. E ancora una volta, proprio come in “Dogville”, lo sguardo critico e ragionato finisce per rovesciare l’impressione iniziale: quello che sembrava un sistema di prevaricazione e sopraffazione progettato dall’uomo bianco si rivela, al contrario, un ordinamento scritto da un nero per proteggere l’intera comunità, un organismo giuridico basato sul minore di due mali, la schiavitù anziché la fame e l’insicurezza. Anche stavolta lo sguardo in profondità scopre una verità paradossale: la legge di Mam è anche la legge di Wilhelm. E’ una legge per il bene di tutti. La schiavitù non è altro che un patto pacifico a cui si è arrivati di comune accordo fra bianchi e neri in modo da proteggersi dal mondo che là fuori, nel resto d’America, cambia troppo repentinamente e sembra costituire solo una minaccia per la gente di Manderlay.

Lars Von Trier si conferma uno dei registi più cinici ma allo stesso tempo coerenti dell’ultimo ventennio. E’ un uomo del Nord, programmatico, calcolatore, cinico, violento. “Dogville” è, al momento, il suo capolavoro. La violenza dell’ipocrisia della democrazia insieme alla mielosa incapacità di farne a meno è bella tanto quanto la scena di Nicole Kidman che rotola tra le mele. In “Manderlay” lo schema è volutamente lo stesso: astrarre il dramma per evidenziare le componenti patetiche, in senso etimologico, lasciare chi soffre alla sua nuova storia. Questa volta è il povero nero alle prese con le difficoltà della riavuta libertà. Dopo la schiavitù non è facile sentirsi liberi.. Stessa meccanica, stesse dinamiche, stesse riunioni; per democratiche alzate di braccio si decide anche l’ora solare e si aggiusta l”orologio. Le lezioni di Grace su come si fonda un paese equo e solidale non vanno oltre la quarta riunione. Von Trier continua a inventare trappole, a proclamare non-verità. Svela e nasconde. Disorienta. Fa cinema concettuale. Parla di democrazia e schiavitù, libertà e asservimento, anche di redenzione. Sembra andare in una direzione, poi ne prende un’altra.

Nota 1: il terzo episodio, che dovrebbe chiamarsi “Washington”, avrà una più lunga gestazione. In questo senso si comprendono le parole di Von Trier quando dice: “Questa trilogia sugli Stati Uniti deve essere teatrale perché è un paese dove non sono mai stato, un posto che esiste solo nella mia testa”.

Nota 2: Von Trier ha girato una scena nella quale l’asino viene ucciso per dare da mangiare alla bambina morente. L’asino è stato effettivamente ucciso (con grande disappunto della Protezione Animali). Ma per aggiungere perplessità a contrarietà, il regista ha deciso in seguito di tagliare la scena a causa delle proteste degli animalisti.

Giorgio Pennisi

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