Malato di sclerosi, cade da scale del Comune Il fratello insulta l’assessora, condannato

Un giorno di settembre di cinque anni fa Giovanni (nome di fantasia ndr), 47 anni, affetto da sclerosi multipla, è in macchina in direzione di Adrano insieme alla figlia nata con la sindrome di down e costretta sulla sedie a rotelle. Da una telefonata viene informato che suo fratello, anche lui colpito da sclerosi, è caduto dalla rampa di scale che è costretto a salire per ritirare il pass invalidi ed è entrato in coma. Giovanni torna indietro, si catapulta al municipio per riversare la sua incontenibile rabbia addosso a quelli che ritiene i responsabili di quanto successo a suo fratello, cioè gli amministratori della città. Ma non trova né il sindaco, né il suo vice. A ricevere gli insulti è l’assessora ai Servizi sociali, Franca Maugeri. «Pezza di m… che non sei degna di stare qua dentro, da quando sei al Comune ti sei fatta il locale e pensi solo a farti i tuoi interessi privati». E’ questa la frase, riportata letteralmente, che costa a Giovanni una denuncia per oltraggio a pubblico ufficiale.

A niente vale la mediazione del maresciallo dei carabinieri che cerca di evitare le vie giudiziarie. L’assessora non sente ragioni neanche di fronte a una formale lettera di scuse in cui Giovanni cerca di spiegare la sua reazione, dettata – dice – «dallo stress». «Volevo solo criticarla, non insultarla, si giustifica». La denuncia fa il suo corso fino a ieri quando la Corte d’appello di Caltanissetta conferma la condanna di primo grado nei confronti del 47enne: quattro mesi e risarcimento delle spese.

Il fratello di Giovanni uscirà dal coma qualche giorno dopo. Ma al momento della lite, Giovanni non può saperlo. Lui sa solo che una delle persone a lui più care è in fin di vita perché, per ritirare un pass in un ufficio che si rivolge proprio ai disabili, è stato costretto a salire una rampa di scale larga e senza corrimano ed è caduto. La storia si svolge a Regalbuto, in provincia di Enna nel settembre del 2009. L’assessora Maugeri si era difesa nei mesi successivi con una lettera al quotidiano ViviEnna sostenendo che «non sono stati gli insulti a fargli beccare la denuncia, ma perché si è permesso di dirmi che avevo ristrutturato il mio ristorante con i soldi dei cittadini. In questo modo non ha offeso solo me, ma tutta la mia famiglia. Sempre nella casa comune – continuava – qualche mese prima, senza essere turbato dalla caduta di nessuno, lo stesso tizio in presenza di tutto l’ufficio dei servizi sociali, a causa di un ritardo dei trasferimenti regionali legati alla legge 6 mi aveva già rivolto le calunnie sopracitate».

La vicenda si è conclusa con una condanna in secondo grado che lascia l’amaro in bocca. Proprio nello stesso giorno in cui i quattro poliziotti accusati dell’omicidio preterintenzionale di Michele Ferrulli – stroncato da un blocco cardiaco dopo essere stato fermato dagli agenti il 30 giugno del 2011 a Milano – vengono assolti perché il fatto non sussiste. Due episodi lontani che però Giovanni mette insieme. «Dopo la condanna – racconta il suo legale Goffredo D’Antona – mi ha chiesto perché lui è stato condannato e quelli che hanno preso a calci Ferrulli sono stati assolti. Cosa gli avrei dovuto rispondere? E’ vergognoso che in Italia le cose vadano così. Gli avrei voluto dire mille cose, gli avrei voluto parlare di Giorgiana Masi, di Francesco Lo Russo, di Carlo Giuliani, di Giuseppe Uva, di Stefano Cucchi, di Federico Aldrovandi e di troppi altri. Ma sono stato zitto, ad ascoltare il suo silenzio sconsolato. Ieri io come tanti altri avvocati italiani, abbiamo percepito la difficoltà del nostro lavoro. L’inutilità del nostro lavoro. La legge è uguale per tutti, non la giustizia».

Salvo Catalano

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