Cosa Nostra come una rete: con maglie fitte e tanti nodi quanti sono gli affiliati. Parte da qui uno studio del dipartimento di Fisica e Chimica dell’università di Palermo, che prova a dare una risposta alla domanda di forze dell’ordine e magistratura: quale nodo tagliare, ossia chi arrestare, per creare un buco consistente nella rete mafiosa? Una domanda la cui risposta spesso tarda ad arrivare anche per anni. O che non sempre dà i risultati sperati: come nel caso della latitanza di Matteo Messina Denaro, durata 30 anni e finita solo lunedì, nonostante le decine di inchieste sulla sua rete di fiancheggiatori. Forse troppo vicini e poco rivolti all’esterno, almeno a guardare con la lente dei risultati ottenuti da Salvatore Miccichè, docente di Reti complesse, e Federico Musciotto, che insegna Econofisica computazionale. «La rimozione casuale dei nodi risulta abbastanza inefficiente nello smantellamento della rete, anche perché servirebbe rimuoverne circa la metà – si legge nella ricerca – Al contrario, gli attacchi mirati in base alla centralità dei nodi sono più efficaci e una strategia che tiene conto di quanto un componente collabora con diversi clan ha un’efficienza simile, è più semplice e più veloce». Basandosi su dati – i contatti tra i gruppi – più facili da reperire per chi indaga, anche senza conoscere troppi dettagli sulle attività.
Basti pensare a uno dei settori chiave per la sopravvivenza dei clan: il mercato della droga. Gestito in maniera coordinata dai vari gruppi mafiosi di una città, in base a un principio territoriale di non concorrenza o, sempre più spesso, persino in collaborazione: tra chi ci mette i contatti e chi la logistica o le piazze. Tagliare questi scambi permetterebbe insomma di assestare un colpo decisamente più duro – e duraturo – rispetto all’arresto di figure dalla sostituzione facile o dalla scarsa centralità. Una strategia provata dai due docenti con l’aiuto di un modello: una rete costruita a partire da 125 documenti giudiziari – tra rinvii a giudizio e sentenze non definitive – del tribunale di Palermo nel periodo compreso tra il 2000 e il 2014. Con 631 soggetti condannati per mafia – circa il 10 per cento della mafia del Palermitano – e 723 reati contestati: numeri poi limati, trasformando in nodi i soggetti di cui era chiara l’appartenenza a un clan specifico – 62 gruppi mappati nel Palermitano – e persino l’indirizzo di residenza. Affiliati collegati tra loro in base alla loro apparizione nello stesso processo.
Com’era prevedibile, il maggior numero di collegamenti si è avuto tra persone dello stesso clan. «Ma i rapporti tra componenti di clan diversi, che possono essere visti come deboli, in quanto i clan di Cosa Nostra sono circoli socialmente chiusi, hanno dimostrato di avere invece un ruolo cruciale nel collegare la rete in un unico componente». Il sistema mafioso, per l’appunto. I docenti hanno proceduto per esperimenti alternativi: rimuovendo prima i nodi con più collegamenti con altri affiliati – dello stesso o di diversi clan -; poi provando con lo stesso numero di intermediari chiave; infine attaccando solo i nodi che mostravano collegamenti con clan diversi dal proprio. Se la strategia di mezzo è risultata la meno utile, quelle invece che tengono conto dei contatti si sono rivelate le più efficaci. Con una sorpresa: arrestando solo gli ipotetici affiliati con collegamenti esterni al proprio clan, venivano a cadere più nodi in assoluto. La rete, insomma, si mostrava vulnerabile e con utile strappo.
«Questo studio nasce dall’interesse a fare qualcosa di utile – spiega Miccichè – L’idea è dare alle forze dell’ordine e alla magistratura uno strumento che non può certo sostituire le indagini, ma dare suggerimenti sulle strade più proficue da seguire, simulare degli scenari in maniera sistematizzata, fornire una tecnica da applicare. In questo caso, anche scientificamente, è stato interessante vedere come giochino un ruolo fondamentale quelli che di solito sono considerati legami deboli». E che invece tengono in piedi l’intero sistema, «quello di Cosa Nostra, a cui guardare appunto come un network e non per singoli clan da disarticolare separatamente».
Un ambito di studi, quello della teoria delle Reti e dei Sistemi complessi, che Miccichè ha già usato per occuparsi di mafia. Anche in virtù di una convenzione del dipartimento di Fisica e Chimica di UniPa con la procura di Palermo, che va avanti dal 2014 e adesso da aggiornare con l’arrivo del nuovo procuratore capo, Maurizio de Lucia. Nel 2021, un altro studio multidisciplinare, a cui ha preso parte lo stesso Miccichè, ha analizzato i rapporti interni a Cosa Nostra e il reclutamento dei giovani su base territoriale e del curriculum criminale. Quasi la naturale prosecuzione di una ricerca del 2018, a cui Miccichè ha lavorato insieme a psicologi e psichiatri, per dimostrare scientificamente come i mafiosi non siano né matti – inteso nell’ipotesi di una loro psicopatia – né rientrino nello spettro del comportamento antisociale. A predisporre semmai verso una carriera criminale sono due punti spesso dibattuti: la scarsa istruzione e l’aver iniziato a lavorare giovanissimi, con una media d’età di 13 anni. Due punti validati scientificamente – nel caso in cui fosse necessario – su cui la politica dovrebbe prendere appunti per investimenti mirati.
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