La Cassazione apre uno spiraglio di speranza in merito alle indagini sull’omicidio mafioso di Francesco Vecchio e Alessandro Rovetta, dirigenti dell’acciaieria Megara freddati a colpi d’arma da fuoco il 31 ottobre 1990, alla zona industriale di Catania. Lo scorso 26 maggio i giudici della suprema corte hanno respinto il decreto di archiviazione emesso il 30 giugno 2016 dal gip di Catania su richiesta della procura. Il provvedimento degli ermellini si fonda su un difetto procedurale: il provvedimento dello scorso anno non è stato notificato alle parti interessate, ovvero ai legali dei parenti delle vittime. Ora il fascicolo ritorna ai pm etnei, che dovranno nuovamente esprimersi sulla vicenda. Sarà poi il gip a stabilire come procedere, anche sulla scorta della posizione dei magistrati inquirenti. Se rimarranno fermi sulla linea dell’archiviazione, il giudice potrà dare loro ragione o ordinare nuove indagini.
L’inchiesta era stata riaperta una prima volta nel 2008, quando Salvatore Vecchio, figlio dell’acese Francesco, era venuto a sapere per via indiretta dell’archiviazione della prima indagine sul caso. «Anche allora nessuno di noi era stato avvisato. In quel frangente – racconta a MeridioNews – ho fatto un accesso agli atti, scoprendo che c’erano un sacco di incongruenze, di vuoti e di situazioni che meritavano un approfondimento. Così mi sono recato in procura, chiedendo e ottenendo la riapertura del fascicolo». Le indagini erano dunque state riavviate, per finire di nuovo tra la polvere di un cassetto nel giugno 2016. «Una decisione presa non perché non ci sia materiale di indagine – aggiunge Salvatore Vecchio – ma piuttosto perché le piste sono troppe».
Il figlio di Francesco racconta che – accanto alla tesi del coinvolgimento del clan Santapaola-Ercolano, sostenuta nel 1994 dal collaboratore di giustizia Maurizio Avola – esistono ipotesi diverse avanzate da altri pentiti, una delle quali porterebbe all’interesse per l’azienda da parte della Cupola palermitana. A quel tempo l’acciaieria Megara si era aggiudicata un finanziamento da 60 miliardi di lire per l’ampliamento delle sue strutture. Denaro che, secondo lui, aveva probabilmente risvegliato gli appetiti della criminalità organizzata. Inoltre, nei cantieri della Megara lavoravano cooperative che impiegavano detenuti con permessi speciali. E Francesco Vecchio era proprio il responsabile della gestione del personale.
La natura mafiosa del delitto era apparsa l’ipotesi più accreditata fin dal primo istante. Prima che i due dirigenti venissero uccisi a pochi passi dall’azienda, alla fine del turno di lavoro, Francesco Vecchio era stato più volte oggetto di intimidazioni. Salvatore Vecchio spera che adesso la procura proceda «con meno superficialità e più incisività. Alla fine, alle vittime della mafia – sospira – le uniche cose che puoi dare sono verità e giustizia». Il figlio del dirigente d’azienda, che fa l’avvocato, è stato ascoltato poche settimane fa – a marzo – dal quinto comitato della Commissione nazionale Antimafia. «Lo abbiamo fatto – dichiara il presidente del Comitato Davide Mattiello, deputato torinese – per riaccendere l’attenzione pubblica. Ma se la procura riavvierà le indagini è tutto da capire».
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