Mafia: le regole morali, i doveri e i divieti dei boss Tra iniziazioni, giuramenti e scheletri nell’armadio

«Se doveva succedere qualcosa, anche di eclatante, anche di pesante, non si doveva parlare con gli affiliati, ma solo fra capi mandamento». Questa è una delle regole principali della nuova Commissione provinciale, che si è ufficialmente ricostituita con la riunione segreta del 29 maggio, e a cui hanno partecipato tutti i capi mandamento, eccetto uno. A mancare all’appello è Filippo Bisconti, capo mandamento di Belmonte Mezzagno, che giustifica la sua assenza col timore di essere seguito dalle autorità. Ma che in realtà non si presenta perché in disaccordo con la linea di tenere sempre più a distanza i paesi, incluso il suo, e chi ne è a capo. La riunione intanto si fa. Come prima cosa servono delle regole, «è il primo atto di un organismo», sottolinea Francesco Colletti, ex capo mandamento di Villabate, divenuto collaboratore a dicembre poco dopo l’arresto. Non sono riunioni tanto per parlare, insomma, quelle tra uomini d’onore. Specie se la Commissione non si riunisce dall’arresto nel ’93 di Totò Riina. Ogni capo mandamento può avere un delegato, «metti che hai un impedimento», ma non si può certo «parlare all’orecchio, quella è una mancanza di rispetto». Se qualcuno sbaglia viene messo fuori. «Si poteva chiacchierare, ma quando si doveva fare un discorso bisognava rivolgersi al capo mandamento di riferimento per quella zona».

Sgarri e confusioni che prima della riunione del 29 maggio avvenivano con una certa frequenza, per questo l’urgenza di imprimere un ordine, una direzione. Di cui si poteva discutere di volta in volta a ogni incontro. Perché «le riunioni le dovevamo fare ciascuno, mettendo a disposizione un luogo», continua Colletti. Ogni capo mandamento avrebbe quindi dovuto organizzare un appuntamento con tutti gli altri. Dopo quello di maggio, il prossimo era atteso per settembre. Ma la riunione viene posticipata – fino a che non verranno tutti arrestati a dicembre – per via delle tensioni manifestate proprio da Colletti e Bisconti, anche quest’ultimo collaboratore da circa due settimane. I due parlano, si confrontano, si sfogano durante le loro lunghe passeggiate in città, passando per il Politeama, il Massimo, via Maqueda. Le tensioni tuttavia non arrivano a sfociare in un conflitto più concreto. Anche loro sono d’accordo col fatto che ricostituire un organo collegiale sia fondamentale per «rimettere ordine in Cosa nostra», soprattutto per evitare omicidi non autorizzati. Qualche regola, però, i padrini ce l’hanno già, e da tempo anche. Eredità, nel caso di molti, dei boss che li hanno preceduti. Boss di un certo peso, come Riina.

Non stupisce, infatti, che alle insistenze di Leandro alias Michele Greco per mettere per iscritto delle regole, gli altri capi mandamento abbiano ribadito che esistevano già, alludendo a quelle «custodite nel mandamento di Corleone». Ma è difficile frenare l’entusiasmo criminale del giovane nipote del Papa, anche perché sa benissimo di essere uno di quelli che contano di più. La nuova Cosa nostra, infatti, sembra puntare molto su personaggi come lui, «in considerazione della prestigiosa famiglia di origine e del particolare dinamismo, cioè quell’evidente volontà di espandere ulteriormente il proprio potere criminale», recitano le carte; e, dall’altro lato, su personaggi come Settimo Mineo, ritenuto capo della nuova Commissione e arrestato a dicembre, «per la sua autorevolezza, derivante dall’età, dalla vasta esperienza criminale e dal curriculum criminale ineccepibile». D’accordo entrambi per una linea oligarchica da imprimere alla Commissione che, secondo gli inquirenti, ne avrebbe esponenzialmente accresciuto la pericolosità.

Quello che più di tutto emerge incrociando i riscontri investigativi con i racconti dei collaboratori è soprattutto «una piena ed inquietante identità tra l’organismo direttivo in esame e la struttura storica della Commissione provinciale di Cosa nostra – si legge ancora nelle carte -, e ciò risulta definitivamente comprovato dall’assoluta sovrapponibilità tra le regole organizzative e funzionali descritte dagli stessi e i precetti che, sempre a proposito della Commissione provinciale, si ritrovarono consacrati per iscritto in un pizzino di Salvatore e Sandro Lo Piccolo, rinvenuto al momento del loro arresto», il 5 novembre del 2007.

Cosa Nostra palermitana era completamente nelle mani dei Lo Piccolo. Che stavano pensando in grande, ricostituendo mandamenti e famiglie, ricominciando ad affiliare uomini d’onore, come testimonia, oltre alle dichiarazioni dei nuovi collaboratori, il cosiddetto decalogo rinvenuto nel loro covo. Un appunto dettagliato, che contiene innanzitutto un’indicazione dei mandamenti e delle famiglie che li costituiscono. Nel pizzino ci sono anche le indicazioni che vengono date al nuovo uomo d’onore in occasione dell’iniziazione all’associazione mafiosa. Si parte dalla composizione della famiglia e le rispettive funzioni di ciascun membro: al vertice c’è il capo famiglia, «colui che c’ha l’ultima parola» e che viene eletto votando tutti i membri della famiglia; il sotto capo «fa le veci del capo famiglia in sua assenza»; mentre il consigliere «ha il ruolo di tenere a tutti uniti in famiglia e di dare consigli per il bene della famiglia»; infine capo decina e soldati, questi ultimi «si occupano sotto direttive del capo decina per fare i bisogni della famiglia».

In generale, «il mandamento è una famiglia che ha una sedia nella Commissione ed è a capo di più famiglie». La Commissione provinciale si compone di tutti i capi mandamento e al suo interno viene eletto un capo commissione, un sotto capo e un segretario che si occupa degli appuntamenti dell’organo. Viene costituita per mantenere un equilibrio tra le famiglie e dentro Cosa nostra. E per deliberare i fatti più delicati e le decisioni da prendere. «Giuro di essere fedele a Cosa nostra, se dovessi tradire, le mie carni devono bruciare come brucia questa immagine», è la formula che gli affiliati devono recitare, oggi come in passato, durante il rito d’iniziazione. Nel pizzino c’è spazio anche per un altro capitolo importante, quello dei divieti e dei doveri del mafioso. «Non ci si può presentare da soli a un altro amico nostro se non è un terzo a farlo. Non si guardano mogli di amici nostri. Non si fanno comparati con gli sbirri. Non si frequentano taverne né circoli. Dovere in qualsiasi momento di essere disponibile a Cosa nostra, anche se c’è la moglie che sta per partorire. Si rispettano in maniera categorica gli appuntamenti. Si ci deve portare rispetto alla moglie». Ma c’è anche chi rischia di non poter far parte di Cosa nostra, anche se col tempo le maglie della tolleranza si sono molto allargate: «Chi ha un parente stretto nelle varie forze dell’ordine. Chi ha tradimenti sentimentali in famiglia. Chi ha un comportamento pessimo e che non tiene ai valori morali».

Da questo documento emerge plasticamente un’immagine di Cosa Nostra in ricostruzione. Più aperta nei confronti degli scappati (i boss che avevano perso nella seconda guerra di mafia), come anche nei confronti di soggetti che prima non avrebbero mai potuto varcare la porta dell’associazione mafiosa, persone valide ma con qualche scheletro nell’armadio. Un filtro che si va allargando, insomma, per riuscire ad arruolare più adepti possibile. Sono tanti i nomi che dai Lo Piccolo in poi rimbalzeranno sulle cronache, lasciando sempre più sguarnita Cosa nostra. Che però non interrompe mai il proprio patto coi suoi affiliati, che perdura anche in caso di detenzione. A meno di non fare qualche sgarro all’organizzazione, e in quel caso non è detto che lo si possa raccontare, un mafioso resterà per sempre un pezzo di Cosa nostra.

Silvia Buffa

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