«Qual è la vostra opinione sul momento che stiamo vivendo, con la riapertura dei dossier sulle grandi stragi e la questione della trattativa mafia-Stato?». E ancora «C’è una attenzione a quanto avviene sul territorio nella lotta alla mafia?». E infine «Per l’antimafia sociale, dove è necessario agire e cosa bisognerebbe rafforzare?». Il professore Antonio Pioletti, moderatore del dibattito “Rapporti tra mafia e politica in Sicilia dal dopoguerra ad oggi. La Resistenza siciliana alla mafia, dalle lotte contadine ad oggi” inserito all’interno della prima festa provinciale catanese dell’ANPI, pone tre domande per incanalare un topic vastissimo che potrebbe perdersi in mille rivoli senza sbocco, portandolo verso uno degli obiettivi dell’incontro, dichiarati nei saluti iniziali da Claudio Longhitano, della segreteria dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, ovvero «Ricordare, ma ricordare soprattutto chi rischia oggi per la libertà d’espressione». Come Pino Maniaci, giornalista minacciato più volte dai mafiosi di Partinico e che vive sotto scorta, il primo a prendere la parola.
Pino Maniaci, per chi non lo conoscesse, è il direttore di Telejato. «E’ una piccola televisione e trasmette in 25 comuni nel triangolo delle Bermuda, tra Corleone Montelepre e Cinisi». E’ iniziato tutto quasi per gioco, ha coinvolto la sua famiglia nel progetto della tv, e «piano piano le cose da gioco sono diventate più pesanti, ma i miei figli non ne hanno voluto sapere di lasciare stare». Parlando della sua esperienza, risponde contemporaneamente alle due domande, sul controllo del territorio e sull’antimafia sociale: «Telejato fa quello che dovrebbe fare ogni giornalista e cittadino onesto, e spesso le indagini della magistratura partono dalle denunce di Telejato. La mafia ha il controllo capillare del territorio, ma l’informazione no. Noi invece abbiamo raggiunto il ruolo di riferimento per i cittadini di Partinico, e le persone si rivolgono a noi anche solo per denunciare le buche nelle strade, siamo come una istituzione». Sulle stragi, si domanda «come mai solo dopo le provocazioni del figlio di Ciancimino e 17 anni i politici improvvisamente ricordano questo contatto fra parti deviate dello Stato e la mafia?». La risposta che dà è che forse i giornalisti non hanno fatto il proprio dovere, non hanno fatto le domande giuste in tutti questi anni. E aggiunge «stiamo perdendo il senso della realtà dopo vent’ anni di tv del biscione, che non ci fa sembrare strano un paese dominato dalla mignottocrazia. Vi do un consiglio: spegnete i televisori e accendete il cervello. Telejato ha raccontato i processi del proprio territorio e continuerà a farlo, ma il giornalismo da cane da guardia del potere è diventato “chihuahua”. Il giornalismo sul territorio si fa per passione, mentre la professione è per i leccaculo».
Rosa Maria Di Natale, giornalista e docente universitario, dopo l’intervento di Pino Maniaci parla di memoria storica nel giornalismo, con una citazione. «Pochi giorni fa ho letto una ricerca universitaria, una ricognizione sulla stampa catanese degli anni ’70 e ’80. Nel ’72 l’Ora di Palermo aveva creato una redazione a Catania, ma anche il giornale famoso per la sua lotta alla mafia nei suoi anni a Catania non riuscì a capire fino in fondo i rapporti fra potere e mafia. La mafia in quegli anni a Catania non esisteva». Tanto che, racconta la Di Natale, in una inchiesta del ’76 di Giuliana Saladino, dalle interviste ai Cavalieri del lavoro – che diventeranno famosi come I Cavalieri dell’Apocalisse mafiosa dopo un famoso articolo di Giuseppe Fava sul primo numero dei Siciliani – emerge un ritratto a tratti sconcertante con chiare collusioni ma nonostante questo la Saladino conclude «se non ci fossero, Catania colerebbe a picco. Si guarda poco al passato qui a Catania, ci si è assuefatti alla mancanza di memoria. E’ stato più facile parlare di questi temi, sulle novità delle stragi del ’92, sui nuovi media. Sembra che il pubblico si sia diviso in due da una parte chi chiede e si informa con ogni mezzo, dall’altro chi è schiacciato dal quotidiano, scocciato da quel che i giornalisti scrivono». Rispondendo a Maniaci, precisa che «non tutti quelli che hanno il tesserino sono brutti sporchi e cattivi», e spiega che c’è chi segue la passione da professionista, e oggi può restare slegato dai vincoli autoproducendosi. Pur non essendo semplice per via dei rischi economici e legali, è un modo di lavorare che prende sempre più piede, e che all’estero ha grande diffusione. Professionalità dunque: all’antimafia sociale la prof. Di Natale rimprovera che la buona volontà non basta. «Maniaci è un esempio positivo di professionalizzazione, perché ha messo di fatto in piedi un’ impresa. Nel giornalismo antimafia al contrario si dimentica troppo spesso la professionalizzazione». Sulla provocazione di Maniaci infine risponde «Il momento storico è particolarmente duro, ma ci sono ancora giovani che credono al fatto che la professione di giornalista possa essere qualcosa di diverso dal fare il lacché».
Vito Lucio Lo Monaco, presidente del Centro Pio La Torre inizia dicendo che «la mafia esiste perché ha un rapporto speciale privilegiato con la politica, altrimenti sarebbe una associazione criminale come le altre. Quella che viene sconfitta periodicamente è la parte “militare” di cosa nostra, ma questa sopravvive, ha sempre fatto così». Porta ad esempio il caso storico di Gangi, nel periodo fascista, ma sottolinea come anche oggi la mafia dimostri ancora grande capacità di adattamento. Solo che oggi sembra si sia arrivati all’accettazione della mafia come presenza, con l’accordo fra mafia e potere oscuro presentato come “necessario” dal procuratore nazionale antimafia Grasso. «Oggi è anche il periodo in cui si fanno proclami vuoti ma si distruggono gli strumenti per lottare contro la mafia, e si attacca la costituzione, che non è stata “un regalino”, ma il frutto della Resistenza. Difendere la Costituzione significa combattere la mafia, ma facendo attenzione alla sostanza dei provvedimenti, e non alla comunicazione che controllata può farci credere anche che si stia combattendo la mafia». Conclude il suo intervento parlando della necessità di diffondere la cultura dell’antimafia, comunicando con tutti senza distinzioni politiche, ma «Bisogna distinguere fra chi predica l’antimafia e chi la attua».
Giovanni Impastato, fratello di Peppino Impastato che ormai da anni porta in giro in conferenze e incontri la testimonianza e la memoria del fratello, parla del recente episodio di Ponteranica, provincia di Bergamo, in cui il sindaco leghista ha cambia il nome di una biblioteca pubblica, cancellando il nome di Peppino Impastato. «Non è un’azione isolata, ma un atto di criminalità politica portata avanti dalla Lega. Siamo scesi in piazza contro questa decisione, politicizzando al massimo l’episodio, in 10mila contro il partito di Bossi: si è trattato di Resistenza».
Le parole di Giovanni Impastato sono inaspettate nella sala, tanto che si giustifica dicendo «non voglio essere scambiato per un agitatore politico, ma non ci si deve spaventare a dire che si tratta di manifestazioni politiche, e ringrazio di aver dedicato la manifestazione di oggi a Peppino Impastato e Pio La Torre, due militanti comunisti: bisogna evitare le forme di revisionismo storico, e se bisogna ristabilire la legalità in Italia bisogna partire dalla Costituzione e dai suoi ideali antifascisti». Prosegue rispondendo a Lo Monaco, sulla necessità del dialogo per formare una cultura dell’antimafia condivisa: «Il dialogo non va bene, c’è bisogno di uno scontro politico acceso, parlando con certe persone non si conclude nulla. Se non si educano i giovani alla disubbidienza civile non si può uscirne. Non dico di sradicare le regole della convivenza civile, ma di fare Resistenza». Alla domanda sulle stragi mafiose e al patto segreto mafia–Stato, fa notare una serie di inquietanti parallelismi fra Portella della Ginestra, la strage di piazza Fontana e le stragi del ’92: «In momenti fondamentali per la Repubblica italiana, lo Stato ha dialogato con la mafia e delle stragi hanno evitato “conseguenze politiche”, quasi un teorema che dimostra la continuità dei rapporti fra mafia e politica. L’antimafia all’acqua di rose non va bene, deve diventare politicizzata, somigliare all’antimafia di Peppino Impastato».
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