Non solo lotte di potere, promozioni e cambi al vertice. Negli anni ricostruiti dall’inchiesta culminata con il blitz Ombra di pochi giorni fa, c’era anche l’ordinaria amministrazione. Soprattutto quella della cassa della famiglia Santapaola-Ercolano: la bacinella con i proventi delle estorsioni – ma anche del recupero crediti e dell’usura -, necessari a pagare i legali degli affiliati e il sostentamento alle famiglie dei carcerati. Un giro di soldi gestito dai responsabili dei gruppi territoriali della famiglia mafiosa, cercando di coinvolgere solo quando necessario i vertici: Mario Ercolano – comodamente rintracciabile al cellulare, seppur in carcere -, l’ex reggente Francesco Napoli – fino al suo arresto nel 2022 – e il nuovo capo Francesco Russo. Eventualità non proprio remota, tra un uso troppo disinvolto di minacce e mazze e questioni diplomatiche da risolvere.
Un effetto collaterale degli arresti è anche il rischio di mandare a monte le nuove estorsioni. Aprendo pericolosi spazi ai clan rivali. «Ci hanno buttato una lettera, una cosa, tipo una testa…». Non sanno bene neanche loro com’è andata, ma di certo c’è che a interessarsi a un’associazione sportiva – con dei campi in costruzione alla Circonvallazione di Catania – c’è anche il clan rivale dei Cappello. «Un impedimento, cosa di niente», si dicono fiduciosi tra loro alcuni affiliati dei Santapaola-Ercolano, certi che il nome di Mario Ercolano – seppur in carcere – risolverà la situazione. E, in effetti, basterà ai Capello per proporre un regalo: dividere a metà gli ottomila euro all’anno del pizzo, duemila dei quali in arrivo per Natale. «Voglio farti comprare una macchina», è l’offerta di pace. «La macchina è buona… ce la prendiamo!», il lieto fine. Non sempre così rapido e sicuro. Come nel caso di un locale notturno nella zona del viale Africa: di proprietà di un uomo vicino ai Cappello, ma nel territorio gestito dal gruppo della stazione dei Santapaola-Ercolano. Con annessa risoluzione dei problemi di ordine e sicurezza patiti dal titolare, in cambio solo di qualche altro regalo. Almeno finché non arriva la lamentela dei Cappello, che vorrebbero il proprio familiare del tutto esonerato da qualunque pagamento. «Hai quattro serate la settimana, stiamo parlando che ci fai trovare cento euro a settimana, per aiutare le persone in galera – si lamenta Daniele Strano, responsabile del gruppo della stazione per i Santapaola-Ercolano – Uno che si sta là la sera a evitare discussioni, solo contro trenta, è privo anche di un regalo? E i Cappello dove sono? Dicono “è parente nostro” ma poi la sera, quando chiama, devo scappare io? Voi vi prendete i soldi e noialtri le discussioni?». Uno sfogo che lascia spazio alla nostalgia: «Hanno fatto bene all’epoca che lo hanno buttato a mare, gli hanno sfasciato la testa».
Non solo cifre proporzionate al business delle vittime, ma tempi e modalità differenziati per settore. A pagare poco ma spesso sono soprattutto i locali notturni, fonte inesauribile di liquidità per le casse della famiglia mafiosa. «Ogni volta che aprite il locale, non è una richiesta, non è una pretesa…», è l’affabile modo con cui viene avvicinato il titolare di un altro luogo della movida alla stazione. Che si mette a posto ancora prima di inaugurare la stagione, comunicando la data di inizio delle serate. «Da giorno venti in poi tu, ‘mbare, ogni domenica cinquanta euro a settimana! Sono duecento euro al mese». In cambio della solita protezione e vigilanza. Lavoro che si alterna al controllo dei locali aperti e attivi, sera per sera, così da evitare che qualcuno sfugga al pagamento. Stessa cifra, duecento euro al mese, chiesta anche a un camion dei panini di Belpasso: piccoli pagamenti in attività affollate, gestibili con disinvoltura e costanza. Al contrario di quanto succede con cifre più importanti e attività meno trafficate, più complicate da gestire. «Mille euro li ha presi in banca, sono dovuto andare con lui, e poi sono dovuto salire a Mascalucia da sua madre per centocinquanta euro. Niente, ‘mbare…», racconta un affiliato addetto alla riscossione del pizzo da una società di autotrasporti, continuando la frase con la vivida descrizione degli effetti della sua stanchezza: l’importante rigonfiamento di un organo in particolare. Trattative che si fanno ancora più complesse quando le vittime hanno più attività o punti vendita e i prezzi a forfait delle estorsioni vanno ritoccati in base a nuove aperture o chiusure. Come nel caso di un imprenditore di Giarre nel settore dell’abbigliamento, che pagava seimila euro all’anno – in due tranche, a giugno e a dicembre -, per quattro punti vendita. Diventati cinquemila difficilmente pagabili dopo il lockdown e da discutere nuovamente per la chiusura di un altro negozio ancora. Una cifra trattabile ma non troppo, gli spiegano, perché «gli avvocati oggi si stanno mangiando tutto». E servono soldi.
Un flusso di denaro costante gestito in maniera casalinga. Persino con i messaggi Whatsapp inviati a se stesso come promemoria degli stipendi. È il metodo scelto da Strano che appunta cifre e nomi: dai 200 ai 1700 euro, riservati a chi ha maggiori responsabilità. Tra cui se stesso. Soldi di cui fa uso anche in modo galante. Come quando, già ai domiciliari, subisce una perquisizione in cui viene trovata una pistola. Gli animi si surriscaldano e Strano sa che la sua posizione è peggiorata. Ma questo non gli impedisce di sistemare prima una faccenda di cuore, incaricando un altro affiliato: «Stanotte o domani mi vengono a prendere e mi arrestano. Gli ho alzato le mani anche alla guardia… – spiega – Mi devi fare un favore però: rintracci quella ragazza, le devi dire che mi hanno arrestato e le dai cento euro». Generosità bilanciata, da un’estrema attenzione ai conti. Almeno a giudicare dalla paura di un affiliato per un ammanco di appena 50 euro – su 1250 euro di pizzo a una società che gestisce cinque supermercati – da consegnare all’allora reggente Francesco Napoli. L’uomo è così preoccupato da cercare la complicità della moglie per una scusa plausibile: dal classico «saranno caduti nella fretta» al più fantasioso «dico che li hai presi tu e può essere che sono rimasti impigliati nei vestiti».
Ma a rendere complicato il settore sono anche gli alti standard da mantenere nel servizio offerto ai clienti, come alcuni affiliati chiamano le vittime del pizzo. Zone grigie sempre più ampie, in cui chi paga – più o meno malvolentieri – pretende un riscontro adeguato in termini di sicurezza. Come un produttore agricolo siracusano che si vede rifiutare il pagamento di 45mila euro per una partita di frutta e verdura consegnata a un venditore del mercato ortofrutticolo. Il quale si rifiuta di pagare in virtù di un’amicizia personale – «Andavamo a donne insieme» – con Mario Ercolano. «Sono due, tre anni che stiamo insieme e mi succedono queste cose?», lamenta il produttore al suo estortore. Una recensione negativa che non può restare impunita, ma che divide gli affiliati sul metodo da seguire. C’è chi è favorevole a un pestaggio esemplare, magari con una mazza – «Quando vedi che c’è la maleducazione…» – e chi preferirebbe un approccio più morbido, avendo sentito delle voci sul doppiogioco dell’ambulante: vicino alla famiglia mafiosa, ma anche alle forze dell’ordine. «Non lo può sapere se onesto o se è sbirro… – fa notare un affiliato – A me così mi hanno arrestato, per estorsione, perché poi credono a lui e non a noialtri». E, intanto, il gruppo non disdegna neanche i prestiti. Pure a tasso zero, come nel caso di un autista soccorritore catanese, con il vizio delle slot e delle scommesse. Per un totale di diecimila euro da restituire alla famiglia mafiosa, in rate da 400 euro mensili, senza interessi. Davanti al ritardo di otto mesi nel pagamento, però, gli strozzini decidono per un particolare metodo di accredito automatico: si fanno consegnare il bancomat dell’uomo e, ogni mese, dopo l’arrivo dello stipendio, sono loro a prelevare mille euro. Trattenendo la cifra del debito e consegnando il resto al legittimo proprietario. Altrimenti, promette Strano, «nell’ambulanza ti ci ficco io!».
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