Tra gli arrestati dell’inchiesta Oro bianco, che ha accertato i legami tra la criminalità e la politica e fatto scattare nell’Agrigentino 35 provvedimenti – tra cui 12 misure di custodia cautelare in carcere per associazione mafiosa e 23 avvisi di garanzia – c’è il consigliere comunale di Palma di Montechiaro Salvatore Montalto eletto quattro anni fa nelle fila dell’Udc. Il 52enne impiegato di banca è finito in carcere con l’accusa di associazione mafiosa. Sarebbe stato uno dei capidecina della cosca del paese (del paracco dei Cucciuvì) che avrebbe avuto in Rosario Pace il punto di riferimento.
L’esponente politico, secondo le accuse, sarebbe stato «a disposizione della famiglia» garantendo supporto e «contribuendo a rafforzare il prestigio criminale sul territorio». Montalto è stato eletto il 21 giugno del 2017 con 413 preferenze «con l’apporto determinante di altri membri del paracco», scrivono adesso gli inquirenti. «Si vota fino alle 11 e poi contiamo. Porta un normografo per un analfabeta – dice in una delle intercettazioni finite nelle carte dell’inchiesta coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Palermo – Minimo 450 voti deve prendere. Tutti li devo tagliare quelli che non rispondono». Il consigliere comunale «forte del suo ruolo all’interno dell’Unicredit di Palma di Montechiaro (di cui è dipendente, ndr) agevolava l’incasso di assegni intestati al Domenico Manganello (tra gli arrestati di oggi, ndr) emessi da soggetti connessi al traffico di stupefacenti».
Un intero capitolo dell’ordinanza è poi dedicato ai favori ai politici. In particolare, il gruppo avrebbe offerto sostegno elettorale a Carmelo Pullara, «inconsapevole onorevole eletto all’Assemblea regionale siciliana con l’aspettativa di ricevere favori». L’accusa per gli indagati è di essersi avvalsi della forza di intimidazione del vincolo associativo e delle condizioni di assoggettamento e omertà che ne derivano per commettere gravi delitti, acquisire la gestione o il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, di appalti e servizi pubblici e procurare voti eleggendo propri rappresentanti in occasione delle consultazioni elettorali. Il gruppo criminale avrebbe avuto anche interessi su diverse assunzioni pubbliche. «Hanno telefonato per confermare nome e cognome: fai arrivare il curriculum», sono le parole finite in una intercettazione. Segnalazioni da fare arrivare a influenti rappresentanti della politica e delle istituzioni locali per ottenere rapidamente le risposte desiderate.
Nell’assetto societario mafioso palmese sono rispuntati anche uomini già collegati ai gruppi storici di Calafato e Benvenuto, attraverso il capo stipite Domenico Pace (classe 1941) con l’intero paracco, ormai solido, unitario e con sfere di competenza definite, con una storia alle spalle che parte dalla seconda metà degli anni Novanta, ora gestito da suo nipote Rosario Pace (classe 1960). Il cugino di quest’ultimo – Rosario (classe 1966) è ritenuto responsabile dell’omicidio del giudice Rosario Livatino avvenuto il 21 settembre del 1990 lungo la strada statale 640.
Un ruolo cardine a Favara sarebbe stato assunto da Giuseppe Blando (classe 1964). Una figura carismatica che avrebbe fatto da anello di congiunzione tra Cosa nostra palermitana e gli stiddari di Palma di Montechiaro, colpito da misura per la sua capacità di intermediare per grosse quantità di cocaina, eroina e hashish, interagendo sia con i palermitani che con i calabresi. Blando, già stato arrestato nel gennaio del 2018 nell’ambito dell’operazione Montagna, è fratello del più noto Domenico, arrestato nel maggio del 1996, insieme alla moglie. Per entrambi l’accusa era di essere favoreggiatori della latitanza di Giovanni Brusca.
Diversi sarebbero stati gli ambiti di interesse dell’organizzazione mafiosa. Attività estorsive nei confronti di attività commerciali e imprese operanti a Palma di Montechiaro. È il caso, per esempio, di un’Ati edile di Favara per la realizzazione del quartiere II denominato Stazione Pizzillo di Palma di Montechiaro. «Vedi cosa devi fare, ora c’è la festa e festeggiamo tutti. Gli vado a dare fuoco. Gli puoi anche far cadere i denti», si legge in una delle intercettazioni finite nelle carte dell’inchiesta. Il sodalizio avrebbe fatto anche recupero crediti. Un’attività che, seppur poco redditizia, avrebbe garantito prestigio e riconoscenza. «Fagli uscire i soldi, rompigli le corna».
Alcuni dei protagonisti dell’inchiesta si sarebbero resi responsabili anche di minacce ad appartenenti alla polizia municipale. Interessi anche nel settore dei servizi funebri gestiti da due appartenenti al sodalizio – con il ruolo di soldati – anche obbligando le persone ad assegnare a due ditte diverse lo stesso funerale. Oltre alla pianificazione di rapine a compro oro e portavalori con mezzi cingolati e con la partecipazione di manodopera esterna al paracco. Infine, il sodalizio si sarebbe occupato dell’assistenza alle famiglie degli affiliati detenuti o malati, in certi casi si sarebbero interessati anche per visite mediche attraverso la distribuzione di somme di denaro.
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