«Mafia, a Milano è peggio che al Sud»

Neanche la Madunina può più proteggere Milano. Il capoluogo lombardo è da decenni uno dei centri principali dei traffici della criminalità organizzata. Punto di snodo per affari europei e di contatto per le varie organizzazioni, che danno vita a sempre più potenti alleanze: Cosa Nostra, ‘ndrangheta, camorra e tutt’e tre insieme. Eppure i milanesi sembrano non vedere, come la Sicilia o la Calabria di venti o trent’anni fa (ne ha parlato anche Lorenzo Frigerio, presidente di Libera Lombardia, ndr).

 

Una città che si sdoppia: mentre si allestivano i preparativi e veniva consumava la settimana della moda, raddoppiavano in città gli appuntamenti per discutere di mafie. In preparazione del 20 marzo, XV Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime di Cosa Nostra, Milano sente il bisogno di parlare di quello che le sta succedendo. E lo fa con un corso di formazione popolare, le lezioni all’Università Statale di Milano e alla Bicocca, i seminari in città e all’università Cattolica (che Step1, tramite i suoi corrispondenti all’ombra della Madunina, vi sta raccontando).

 

Spesso presente a questi incontri è Gianni Barbacetto, giornalista e direttore di Omicron, Osservatorio Milanese sulla Criminalità Organizzata al Nord. Lo abbiamo intervistato.

 

A Milano, da febbraio, c’è un fittissimo calendario di eventi che hanno per tema la mafia nel nord Italia. Lei pensa che non ci sia abbastanza coscienza della presenza della criminalità organizzata sul territorio?

«C’è sicuramente un’assoluta sottovalutazione del fenomeno, che arriva fino alla negazione del problema. Questo succede sia nel mondo della società civile che nell’impresa e nella politica. Al contrario, il problema esiste eccome e non solo adesso, ma tradizionalmente». 

 

Quando inizia questa tradizione e come si sviluppa?

«In Lombardia, già dagli anni ’70, ci sono importanti insediamenti mafiosi. Sono stati centinaia i sequestri di persona ad opera prima dei siciliani di Cosa Nostra e poi dei calabresi della ‘ndrangheta. Luciano Liggio, allora il capo di Cosa Nostra, è stato arrestato nel 1974 nel suo appartamento di via Ripamonti, qui a Milano, dove viveva. In via Larga, all’ombra della Madonnina, c’era un ufficio, sede di alcune società, da cui sono passati i grandi capi di Cosa Nostra come Stefano Bontade e Buscetta. Milano era sede della banca di Michele Sindona e del Banco Ambrosiano, le due più grandi banche private, entrambe accusate di riciclaggio in favore di Cosa Nostra. Oggi il fenomeno è cambiato, ma resta un problema».

 

Quali sono oggi i settori con le maggiori infiltrazioni?

«Milano è la capitale della cocaina, non solo per il vastissimo mercato interno, ma anche per quello europeo. Già solo questo fa fare un mucchio di soldi. Inoltre ci sono gli affari apparentemente puliti, come le imprese di seconda e terza generazione, soprattutto dei calabresi. Si tratta di edilizia e movimento terra [settore per cui non è necessaria la certificazione antimafia n.d.r.]: si dice che non ci sia un camion che muove terra o un cantiere edile a Milano dove non si trovi un calabrese con rapporti con la ‘ndrangheta. Ci sono indagini che hanno accertato la presenza delle mafie non soltanto negli appalti privati, ma anche in quelli pubblici. Basti pensare ai cantieri della Tav e a quelli della quarta corsia dell’autostrada Milano-Brescia».

 

C’è stato un caso particolarmente utile per capire il modo di procedere delle organizzazioni criminali?

«Tra i tanti, c’è il caso dell’ortomercato di Milano, con i suoi uffici affittati a delle cooperative di facchinaggio con centinaia di persone impiegate. Solo dopo si è scoperto che queste cooperative facevano capo ad un signore pulito, Antonio Paolo, socio di Salvatore Murabito, esponente della ‘ndrangheta. Si dice che in questo settore di logistica, come la gestione dei magazzini e i trasporti, la ‘ndrangheta e Cosa Nostra siano alleate, detenendo così il monopolio».

 

Spesso, quando si parla di infiltrazioni a Milano, ci si riferisce soprattutto ai comuni della periferia sud: Corsico, Buccinasco e Trezzano. La grande città è davvero al sicuro come sembra?

«Si fanno quei nomi perché lì ci sono tradizionalmente degli insediamenti. Buccinasco viene chiamata Platì 2, perché ormai credo che ci vivano più platioti che a Platì stesso. Ovviamente non tutti gli abitanti sono mafiosi, anzi, la maggioranza sono persone per bene, ma certo ci sono i Barbaro, i Papalia, i Sergi. Queste famiglie sono ormai arrivate alla terza generazione e tutt’e tre sono in carcere. Però, quando vedi che queste stesse persone hanno la sede delle proprie società in via Montenapoleone, nel cuore di Milano, allora qualcosa non quadra. Abitano lì, perché a Buccinasco ci sono anche delle belle villette, ma gli affari li fanno a Milano».

 

Come rispondo gli amministratori locali? Risentono anche loro di una scarsa conoscenza del radicamento del fenomeno?

«Il sindaco Letizia Moratti ha dichiarato che nel capoluogo è presente un problema di infiltrazione, ma la mafia, quella vera, non esiste. Io credo che trovi disdicevole ammettere che la Milano della moda, del design e della finanza sia anche la Milano della cocaina, della ‘ndrangheta e di Cosa Nostra. Anche il prefetto, di recente, ha aperto una relazione di 27 pagine sulla criminalità organizzata al nord scrivendo che qui la mafia non esiste, che “qui non è come al sud”. E infatti qui è peggio del sud, perché in Sicilia o in Calabria nessuno ormai può dire che la mafia non c’è, mentre noi siamo indietro di vent’anni. La si nega perché la politica e l’impresa sono in parte ignoranti e non conosco la propria storia. Alcuni sanno, ma hanno paura che dicendolo si infanghi il buon nome dell’operosa Milano, che invece si difenderebbe proprio affrontando il problema. E poi c’è una parte apertamente collusa».

 

Apertamente in che senso?

«Perché è chiaro che gli imprenditori, nei processi, mentono sapendo di mentire. Fanno finta di non sapere a chi davano i sub-appalti, nonostante si lamentino di furti e incendi, miracolosamente scomparsi dopo aver dato l’appalto a certe famiglie. Magari una domanda te la fai, no? E’ che i calabresi portano lavoro e fanno guadagnare anche gli imprenditori del nord, che si tappano un occhio e anche due. Lo stesso vale per la corruzione della politica: quando accetti le tangenti da imprenditori non collusi, non è che poi fai distinzione quando arriva il mafioso».

 

E la società civile come reagisce? Qual è, ad esempio, la domanda che più spesso si sente rivolgere durante gli incontri che tiene?

«Sempre la stessa, alla fine del dibattito: “ma noi allora cosa possiamo fare?”. Perché il problema è talmente grosso che ognuno si sente impotente. Ma non è vero, perché se ciascuno fa bene il suo lavoro, si informa, sceglie una politica non collusa, che esiste, dà un importante contributo. E poi, soprattutto, bisogna scegliere la legalità. Qualche giorno fa, ad un convegno del sindacato, dicevano che in Lombardia ci sono un milione di lavoratori in nero e che gli ispettori del lavoro sono appena uno ogni sette mila aziende da controllare. E’ chiaro che in questa situazione di illegalità la mafia attecchisce. Abbiamo costruito una serra per la criminalità organizzata, che qui si trova benissimo. Sicuramente meglio che al sud, dove oggi c’è una resistenza».

 

Da giornalista, pensa che ci sia una responsabilità dei media nella scarsa conoscenza delle fenomeno delle mafie al nord e delle sue vittime?

«Anche in questo caso c’è una sottovalutazione. Le notizie vengono date, certo, ma non vengono inquadrate in un sistema. A Milano e in Lombardia ci sono i morti ammazzati di mafia, eppure restano singole notizie, casi isolati. Non si dice mai che c’è un problema non solo di investimenti, ma anche di violenza mafiosa. E’ come se si ammettesse che a Milano ci sono i soldi della mafia, ma non che ci sono i mafiosi».

 

Perché a queste storie non viene dato rilievo? Sono forse troppo poco scenografiche, senza marranzanate e lupare?

«Sono sicuramente meno folkloristiche. La gente continua a non crederci, perché sono troppo vicine e manca quel pizzico di esotico che la Sicilia o la Calabria forniscono. E poi non c’è il caso mediatico, come Roberto Saviano, che ha avuto la capacità di far diventare un problema ciò che non era considerato tale. Anche se devo ammettere che negli ultimi mesi c’è stato un aumento di sensibilità, magari confinato alle pagine locali piuttosto che a quelle nazionali, ma si inizia a discuterne».

Claudia Campese

Giornalista Professionista dal 2011.

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