Mafia, 41 anni fa l’omicidio di Russo e Costa «Serve percorso di ricerca storica su di loro»

«Quei pastori fanno pena solo a guardarli». Diceva così il pentito Gaspare Mutolo, riferendosi ai tre disgraziati in galera per sedici anni perché accusati dal 1994 dell’omicidio di Giuseppe Russo, il tenente colonnello dei carabinieri freddato il 20 agosto 1977 mentre si godeva le sue vacanze passeggiando per le strade di Ficuzza, nel Corleonese. Muore insieme a lui durante quella passeggiata anche l’amico Filippo Costa, ucciso perché non ci fossero testimoni di quell’agguato. La sua colpa? Quella di aver provato a scavare in alcuni dei casi più intricati dell’epoca. Dalla morte di Mattei ai sospetti imbrogli che riguardavano i lavori per l’invaso Garcia.

Uomo fidato di Alberto Dalla Chiesa, viene ricordato ancora oggi a distanza di 41 anni per la sua caparbietà, e raccontato da chi lo ha conosciuto come un uomo tosto e deciso. «Le sue indagini facevano emergere la scalata mafiosa del mandamento corleonese sulla città di Palermo», dice Maurizio Pascucci, presidente dell’associazione Fior di Corleone, che ha deciso di lasciare la sua Firenze, dopo anni di militanza all’Arci, per coltivare le terre dell’ex capo dei capi. «Nei prossimi giorni con alcuni parlamentari mi recherò al ministero della Pubblica istruzione per chiedere l’istituzione di un percorso di ricerca storica che coinvolga questo evento e le capacità investigative del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo – annuncia sui social – Sono convinto che non si costruisce futuro se non conosciamo bene e fino in fondo la nostra storia. Anche quella più complessa e scomoda».

Passano molti anni prima che i tre pastori accusati del duplice omicidio del ’77 vengano assolti e liberati. E la verità giudiziaria, nel tempo, restituirà contorni ben diversi di quell’agguato: a uccidere Russo e Costa è un commando armato formato da boss di un certo calibro. Ci sono Leoluca Bagarella, Pino Greco, Giovanni Brusca e Vincenzo Puccio. I mandanti, poi, sono i padrini più in vista di tutti, Totò Riina e Bernardo Provenzano. Altro che pastori. Ma Russo non si era interessato, durante la sua carriera, seppur breve, solo alla scalata degli uomini di Cosa nostra e ai loro affari. Tra i suoi casi, per esempio, c’è anche quello di Alcamo Marina, passato alla storia come strage della casermetta. È il 27 gennaio ’76, un anno prima dell’omicidio di Russo: a perdere la vita in un agguato violentissimo sono due carabinieri, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta.

Della loro morte vengono accusati quattro giovani alcamesi, che finiscono però totalmente scagionati dopo oltre trent’anni. Mentre il caso, ad oggi, rimane irrisolto e in bilico fra teorie diverse che tirano in ballo ora la mafia, ora il terrorismo e Gladio. Le indagini arrivano persino fino a Cinisi: «C’era stata una falsa rivendicazione, all’epoca, delle Brigate Rosse – racconta Giovanni Impastato -, mi ricordo che furono perquisite le abitazioni dei compagni di Peppino, compresa la nostra casa, perché eravamo considerati estremisti di sinistra, gli unici della zona. Quindi si spostò tutto da noi, ma si trattò solo di una parentesi, Peppino stesso scrisse un volantino per smascherare queste manovre nei nostri confronti». Russo è uno dei primi a indagare sulla strage di Alcamo Marina. E nella squadra da lui coordinata c’è anche l’ex carabiniere Renato Olino. È lui che 36 anni dopo racconta delle torture inflitte a quei giovani poi condannati, per estorcere loro una finta confessione su un delitto mai commesso.

E nei suoi racconti c’è anche il tenente colonnello Russo. «Era un eccezionale capitano dei carabinieri, preparatissimo, un militare tutto d’un pezzo», racconta a MeridioNews l’ex carabiniere, coinvolto nelle indagini per la strage di Alcamo Marina in qualità di agente speciale della sezione di Napoli, una «creatura di Dalla Chiesa, eravamo degli analisti che studiavano il fenomeno del brigatismo. L’Arma – racconta – lì aveva mandato l’elite all’epoca, e Russo aveva molto rispetto per il mio ruolo, mi parlava da pari. Era, dal canto suo, un investigatore di razza che sapeva come mettere insieme i tasselli. Per questo, per il carabiniere e l’uomo che era, mi è dispiaciuto aver consegnato alla storia anche un’altra parte di lui, quella di torturatore». Un’immagine che Olino restituisce a distanza di 36 anni e, a sentire lui, con estrema sofferenza. «Per me era un eccezionale maestro, ma anche per tutti gli altri colleghi e sottoposti. Era dedito all’Arma, viveva persino in caserma con la famiglia».

Ma dopo il primo arresto a pochi giorni dal quel 27 gennaio ’76, quello di Giuseppe Vesco – colui che poi farà i nomi degli altri quattro presunti complici nella strage, poi assolti trent’anni dopo – si concretizza già una prima pista, e sarà quella principalmente battuta. «I primi riscontri, cioè le divise e le armi trovate nell’auto di Vesco, per me bastavano per andare davanti a un giudice. Per Russo no, voleva continuare. La fretta di risolvere il caso, l’entusiasmo per i primi riscontri, la pressione mediatica… tutto questo ha portato a commettere degli errori». Errori come scosse elettriche nei genitali e acqua e sale giù per la gola di Vesco. «Russo ha acconsentito a queste pratiche. Io avevo solo il mio dissenso, mi sono opposto. Ho cercato anche di dimenticare cosa avessi visto, ma non ci sono riuscito e sei mesi dopo ho lasciato la divisa». Molti anni dopo decide di raccontare tutto, rivolgendosi ai magistrati di Trapani. E ribadendo, poi, il suo racconto anche durante il processo di revisione innescato proprio dalle sue dichiarazione e dalle successive inchieste. 

Malgrado quello che vide, Olino conserva insomma un’immagine piuttosto alta di Russo e non fa che ribadirlo: «Non può essere giudicato solo per questo comportamento. Lui è stato anche e soprattutto molto altro – spiega – Era un’entità, un riferimento per tutti. Lui si basava sulle prove, era convinto che fosse Vesco il responsabile, che aveva dato i suoi riscontri. La tortura ha portato in una direzione ben precisa, erano i metodi dell’epoca. Non so immaginare come reagirebbe oggi, se fosse vivo, a sapere queste cose».

Silvia Buffa

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