Maestro Celano, puparo del Capo da tre generazioni «Il recupero della tradizione ha una valenza politica»

«Realizzo i pupi da quando ero bambino. Big Jim lo facevo diventare Rinaldo: gli mettevo i fili meccanici, lo addobbavo come un paladino di Francia e gli facevo cantare qualche storia dell’Orlando Furioso». Nella sua bottega di vicolo Pilicelli, appena sopra il Mercato del Capo, Gaetano Celano racconta di sé senza smettere mai di lavorare: batte il ferro, pulisce un’armatura col fuoco, salda lo stagno. Un po’ artigiano e un po’ artista, Celano è l’erede di una scuola che affonda le sue radici nell’Ottocento. Il nonno di Gaetano è il celebre don Peppino Celano, puparo e cuntista che nel dopoguerra allestì il proprio laboratorio in una traversa di via Scippateste, nel rione che deve il proprio nome all’arabo. E siccome a volte la storia è un incrocio di coincidenze, uno dei più celebri allievi di don Peppino fu Mimmo Cuticchio, che fino al 3 dicembre è in mostra al Palazzo del Quirinale a Roma con l’ontologica L’Opera dei Pupi – Una tradizione in viaggio.

Così come vuole la tradizione, anche Gaetano ha i propri allievi che intendono apprendere la sua arte. Un rapporto particolare, quello che si instaura tra il maestro e l’apprendista, che si basa sul furto del mestiere. Prima di costruire i pupi, si guarda l’artigiano al lavoro: e questo è un processo che può durare mesi, in cui si verifica la vocazione e la tenacia di chi vuole imparare. Neanche si parla di soldi, perché la ricchezza sta appunto nello scambio di competenze e della passione per la manualità. Ad ammirare Celano c’è di questi tempi il cantautore lampedusano Giacomo Sferlazzo, giunto recentemente sulle Madonie e che una manciata di volte alla settimana si reca presso la bottega del Capo. «Nell’Opera dei Pupi c’è tutto: il legno, il metallo, la stoffa, la pittura e il teatro – dice con entusiasmo crescente – che convivono in un’unica arte. Mi piace poi la dimensione del quartiere, con la gente che entra e chiede un pezzo di legno o scambia quattro chiacchiere con Gaetano. E poi il recupero delle tradizioni popolari ha una forte valenza politica, in un mondo che invece tende sempre più all’omologazione. Poeti come Buttitta e Pitrè vanno in quella direzione, se ci pensi». 

Gaetano intanto continua indefesso a lavorare, mentre sparge trucchi del mestiere: «ogni martello ha la sua angolazione», «per costruire un pupo fatto bene ci vuole un mese», «bisogna pensare non solo all’estetica ma soprattutto alla funzionalità». E non può esimersi dal commentare la tradizione che si sta perdendo, con la città che fino a qualche anno fa annoverava una trentina tra pupari e cuntisti mentre adesso si possono contare sulle dita di una mano. «Sono venuti tanti ragazzi  ma altrettanti poi se ne vanno – spiega Celano -, convinti che questo mestiere si possa imparare in un mese. Io li guardo all’opera, e penso che hanno perso l’uso delle mani». La considerazione si estende anche al mercato: «Prima si sentivano le abbanniate, ora ai mercatari ci siddia puru campari». 

Mastru Tano, come lo chiama Giacomo, gestisce anche un’agenzia funebre. A modo suo, ovviamente: «Se c’è il morto lascio i pupi, mi faccio il funerale e poi torno». Sorride quando pensa al figlio, che ha sette anni e che già fa capolino in bottega: «Mi piacerebbe tramandargli il mestiere, la manualità ce l’ha, dà colpi di martello ca pari insegnatu»

Andrea Turco

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