L’Università della meritocrazia perduta

«Vai in piscina e l’acqua è fredda. Domandi perché l’acqua sia fredda e, a Catania, ti rispondono: “Anzi che c’è l’acqua!”», con queste parole Fabio Pagliara ha introdotto l’incontro del Liberal PD dal titolo “La Sfida del Merito”, tenutosi il 13 Febbraio presso lo Sheraton Hotel, a Cannizzaro.

Il merito, questo sconosciuto. In una città in cui, a detta della maggior parte dei cittadini, “se non hai la raccomandazione, niente sei e niente rimarrai”. In una città in cui la politica dominante è quella dell’”anzi che c’è l’acqua”, nel senso che ci si accontenta del minimo indispensabile, senza chiedersi perché non si possa ottenere quel qualcosa in più che, a livello qualitativo, potrebbe fare la differenza.

Gli intervenuti, Harald Bonura (avvocato amministrativista, esperto di servizi pubblici e locali), Ivan Lo Bello (presidente di Confindustria Sicilia e del Banco di Sicilia), Pietro Ichino (ordinario di Diritto del Lavoro presso l’Università Statale di Milano e senatore del PD) ed Enzo Bianco (senatore del PD), hanno affrontato il tema del convegno rispettivamente in ambito professionale, imprenditoriale, amministrativo e politico, non disdegnando espliciti riferimenti al mondo dell’Università che, per il ruolo fondamentale che ricopre nella formazione dell’individuo, è stata indicata come colonna portante della cultura della meritocrazia.

Il ‘mal di merito’, secondo una riuscita definizione di Giovanni Floris, è come il mal di pancia, solo un po’ più grave: Bonura lo definisce addirittura «un cancro da estirpare», poiché è causa di rassegnazione tra i giovani, i quali hanno ormai rinunciato a vedersi assegnati dei riconoscimenti esclusivamente in base alle capacità effettive che sviluppano. Un cognome, una spintarella, una letterina di raccomandazione e tutto s’aggiusta: se non ci sono questi, c’è l’estero, la fuga o, nel peggiore dei casi, la disoccupazione, e nel migliore, la fortuna.

«Bisogna far sì che l’Università divenga un canale diretto d’accesso alla professione», arringa l’avvocato. Ma come?

«Al momento, all’interno del sistema non c’è niente di pratico: un giurista che si laurea non conosce la professione e non ha la possibilità di apprenderne i meccanismi se non al di fuori del percorso universitario. Sarebbero necessari dei processi di formazione post-universitari, oppure, all’interno del ciclo di studi, attivare delle connessioni tra mondo accademico e mondo professionale. Si tratta solo di organizzarsi meglio, niente di eccezionale rispetto a quanto avviene negli atenei del resto d’Europa».

Si parla anche di abolizione del valore legale del titolo di studio. Praticamente, di cosa si tratterebbe?

«Le Università entrerebbero in competizione tra di loro in base alla effettiva capacità di formazione degli studenti e non in base, semplicemente, alla produzione di un valore legale. Il laureato, dunque, verrebbe valutato in base alle qualità acquisite e non in base al fatto che possiede un titolo valido per l’accesso alla professione».

In Italia, emerge dal convegno, le aziende non sono in grado di attirare capitale umano, poiché anche nel privato, seppure in misura non troppo alta, la tendenza generalizzata è quella di non scegliere sempre il meglio. Basti pensare al fatto che, dati alla mano, la classe dirigenziale delle maggiori aziende italiane è ancora chiusa alla famiglia che, queste aziende, le fondò parecchie generazioni or sono.

Caste chiuse d’imprenditori, e mobilità zero. Nasci povero e muori povero. Nasci figlio di notaio, e lascerai a tuo figlio uno studio notarile.

E, nel pubblico, la situazione non pare migliore: le “privatizzazioni” del 1993, spiega Ichino, hanno cercato di dare alle amministrazioni pubbliche la capacità d’organizzazione del privato, conferendo maggiori poteri alla dirigenza e, per conseguenza indiretta, alle coalizioni sindacali. Il risultato è stato a dir poco fallimentare, per via della costituzione spontanea di un circolo vizioso dell’irresponsabilità tra dirigenti e sindacato. Come romperlo?

Dai paesi anglosassoni sembra arrivare la risposta. Meccanismi di Exit e Voice, cioè: se non mi piace un dentifricio, cambio marca. Exit. Oppure protesto per avere ciò per cui pago. Voice.
Il cittadino dovrebbe poter valutare quello che gli sta attorno e il suo pensiero dovrebbe essere tenuto in considerazione: un metodo del genere sarebbe applicabile in qualsiasi ambito e provocherebbe un innalzamento degli standard qualitativi, almeno a guardare, ad esempio, l’esperienza Britannica.

Ma siamo proprio certi che i meccanismi di Exit e Voice si possano adattare anche al mondo universitario?

«Se ci fosse un sistema in cui venisse tolto il valore legale del titolo di studio, se ci fossero una pluralità di atenei accreditati e se il finanziamento arrivasse agli atenei attraverso il vaucher (cioè una quantità di denaro che lo Stato destina all’istruzione dello studente e che non viene messo in mano all’istituzione, ma allo studente stesso in maniera che lo spenda presso le istituzioni), i ragazzi si indirizzerebbero verso l’ateneo che insegna meglio e che fa meglio ricerca. Chi rimane vuoto, chiude. Trasparente, sotto gli occhi di tutti».

«Non c’è niente di più pubblico della funzione pubblica», spiega, alla fine, Ichino. Chissà perché non ce ne ricordiamo mai.   

Luisa Santangelo

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