Nuova chiamata all’interno di un’aula giudiziaria per Mario Ciancio. L’imprenditore, direttore ed editore del quotidiano La Sicilia, coinvolto personalmente come indagato nel processo in fase preliminare in cui è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, potrebbe tornare al palazzo di piazza Verga come testimone. Un invito che porta la firma dei legali dell’ex governatore regionale Raffaele Lombardo alle prese con il secondo capitolo del processo in cui è accusato di essere stato vicino, senza esserne direttamente affiliato, alla famiglia mafiosa di Cosa nostra dei Santapaola-Ercolano. Incroci giudiziari su cui l’ultima parola spetterà a Tiziana Carrubba (a latere Zumbo e Muscarella), presidente del collegio giudicante, che dovrà decidere se ammettere o meno la richiesta degli avvocati del politico.
Secondo i difensori, l’editore deve spiegare termini e modalità della riunione che nel luglio 2008 si teneva nel suo studio. Attorno a quel tavolo, oltre a Lombardo e Ciancio, c’erano l’ex parlamentare europeo Vincenzo Viola e l’imprenditore ed editore sardo Sergio Zuncheddu. Oggi tutti chiamati come testimoni. «Si prospetta un processo ordinario – commenta Lombardo a margine dell’udienza – ecco perché abbiamo fatto questa richiesta che vuole sopperire alle sorprese della sentenza di primo grado». Sull’intercettazione, risultata poi decisiva nelle motivazioni espresse dalla giudice Marina Rizza, «avevamo il nostro parere favorevole affinché fosse acquisita a processo, ma volevamo sentire tutti i protagonisti come testimoni e questo non è stato concesso».
Il nome di Ciancio però non è l’unico che potrebbe comparire. Sul fronte dell’accusa, in aula il procuratore generale Gaetano Siscaro e la magistrata della Procura Agata Santonocito, è stata fatta richiesta di ammettere le dichiarazioni di tre collaboratori di giustizia. Sul fronte catanese l’ultimo pentito della famiglia Santapaola, Fabrizio Nizza, ex reggente mafioso del quartiere periferico di Librino, e Giuseppe Scollo. Quest’ultimo responsabile della frazione di Lineri, a due passi da Misterbianco. «Scollo – spiega al collegio Santonocito – ha raccontato di alcune sollecitazioni che gli erano arrivate per favorire l’elezione di Lombardo».
Il nome a sorpresa è però quello di Vito Galatolo, ex padrino palermitano dell’Acqusanta che dal novembre 2014 ha deciso di collaborare con i magistrati. La famiglia dei Galatolo – a partire dal padre Vincenzo ormai all’ergastolo – è stata da sempre legata a conoscenze in cui emerge puntualmente l’ombra dei servizi segreti deviati. Una zona grigia che emergerebbe anche in riferimento a Raffaele Lombardo. Il boss avrebbe raccolto le confidenze, durante un periodo di codetenzione nel carcere di Parma, di Vincenzo Aiello, rappresentante provinciale catanese dei Santapaola. Quest’ultimo avrebbe riferito a Galatolo di essere stato avvicinato direttamente dai servizi per scagionare con delle dichiarazioni ricamate su misura proprio Lombardo. Il tutto dietro il pagamento di una consistente somma di denaro. Rivelazioni già emerse nell’ambito del processo sulla trattativa tra la mafia e pezzi dello Stato in cui Galatolo ha pure parlato del progetto di Cosa nostra di uccidere il magistrato Nino Di Matteo.
A finire nel rinnovato dibattimento del processo d’appello che vede imputato Lombardo potrebbero essere però anche altre prove che l’accusa ritiene decisive per una nuova condanna. Le dichiarazioni del pentito Salvatore Sciacca nel processo in cui è coinvolto Angelo Lombardo, fratello di Raffaele, e anche «il patrimonio conoscitivo» dell’imprenditore veneto Enrico Maltauro, impegnato nella costruzione del centro commerciale Etnapolis. Altre richieste di prova sono quelle che riguardano l’inchiesta antimafia denominata Caronte e i rapporti tra il partito politico degli autotrasportatori e il Movimento per le autonomie, le due sentenze del processo Iblis in cui è stato condannato l’imprenditore Mariano Incarbone e il certificato di matrimonio del 1983 in cui Lombardo presenziò come testimone, insieme a Piddu Madonia, alle nozze di Salvatore Paternò, figlio del boss di Niscemi Angelo, con Renata Rizzo, figlia di Paolo, cognato del padrino Salvatore Giugno. Una prova che in primo grado tuttavia non era sta ammessa dalla giudice Rizza.
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