Stringo le budella quando sento urlare da lontano. Un gracchio da uccello malefico, nero ovviamente. Il buio di via Padova è pesto, anzi è pestato a botte dalle auto che l’attraversano stritolando le sue lattine sparse per strada. Ed io ho le mani gelate ed il cuore piccolo mentre percorro la via a passo svelto. La strada butterata non promette nulla di buono e neanche quei gatti che si massacrano in una rissa furibonda ai piedi di un cassonetto. L’oscurità mi impedisce di intervenire a sedarla. Sento solo i guaiti, le smorfie di dolore, lo strazio, l’odore del sangue. E sento vomitare di nausea, conati fortissimi che poi capisco provenire dallo stesso cassonetto curvo su se stesso a sputare fuori tutto ciò che aveva ingollato durante la cena.
D’un tratto un lampione s’accende, solo uno, in via Padova. In giro lo scenario è da film horror: scimmie col motore che rotolano spezzando il silenzio con clacson da perderci il senno. Un vampiro che rovista tra l’immondizia per trovare qualche residuo buono per lui. La carrozzina d’un bambino che non è più lì, portato chissà dove e strappato chissà a chi. Le carcasse di qualche cavallo a motore, morti di fame da giorni. Un tanfo come di urina misto a detersivo. Un branco di cani lupo a caccia di anime perse, muniti di lame, una specie di spedizione punitiva. E poi quegli occhi. Le pupille penetranti di una vecchia dal volto arato da rughe, appesa sul suo balcone mentre con l’unghio del dito dondola un sacco di plastica e poi lo molla al vento.
Il sacco cade ed emette un tonfo sordo. Cade proprio tra i miei piedi provocandomi un giramento di testa. Se avessi avuto del rossetto nero come Robert Smith, allora quello sarebbe cominciato a sbavarsi per via della saliva che perdevo dalle labbra. Se avessi avuto più fegato, sarei rimasto lì a sfidare quella strega. Ma sono solo un povero ragazzo immerso in una foresta e schiacciato dai mostri che danzano e si moltiplicano davanti a me. E ripenso in pochi secondi a quando la luce era ancora alta, quando queste strade non mi facevano così paura. E ripenso al giorno in cui gli zombie non erano ancora i principi di questa città. Allora scappo, lasciandomi alle spalle quel calvario e quella vecchia che urla il mio nome ossessivamente.
L’eco della sua voce è robusto come le radici di un albero urlante. Mi frusta le orecchie, mi insegue nella mia corsa. Il lampione poi s’accascia anche lui. Torna il buio e i lupi fiatano la mia paura, il mio sudore, stanno cercando me, ormai è chiaro. Sento il ringhiare, gli sbuffi. Sento il loro fiato licantropo. Ed io allora mi pianto sulle scarpe nascosto dal cadavere di un’auto vecchia mollata dal suo padrone vent’anni fa. Mi chino e l’abbraccio, sentendo sulle dita la polvere di quando ancora era giovane e bella. I lupi rovistano dappertutto, cercano di trovare il mio odore mangiato dal buio. Cominciano una danza propiziatoria, sento il tintinnio delle loro zampe sull’asfalto nero. Qualcosa di sessuale, degli affanni, dei tormenti animaleschi.
Tutto al buio. Mi sento spacciato, è la fine. Mi troveranno. Ma poi succede qualcosa. Una sirena silenziosa ma luminosissima. Gialla a intermittenza. Alzo gli occhi ed uno smisurato scarafaggio di ferro s’avvicina dalla lontananza, magnifico, enorme. Aggrappati alla sua corazza ci stanno degli uomini che strillano e si dimenano come diavoli. I lupi allora fuggono giurandomi vendetta. Io faccio lo stesso ma dalla parte opposta. Salgo in macchina e taglio l’oscurità. L’ultima immagine che ho di questa brutta notte delle streghe sono gli uomini che caricano il povero cassonetto a morte. Inghiottito per soddisfare la fame vorace dello scarafaggio mostruoso. E allora ho pensato: il grande mangia il piccolo, è sempre così a Catania. Il più cattivo vince sempre. Io? Io mi do alla fuga.
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