«Non mi piace pagare. È una rinuncia alla mia dignità d’imprenditore». Non pensava di essere un eroe Libero Grassi, ma solo un “mercante”. Produceva biancheria, la sua impresa, la Sigma, era un’azienda sana con un bilancio in attivo. Un bersaglio che faceva gola a Cosa nostra. «La prima volta mi chiesero i soldi per i “poveri amici carcerati”, i “picciotti chiusi all’Ucciardone” – scrive Grassi in una lettera pubblicata dal Corriere della Sera -. Quello fu il primissimo contatto. Dissi subito di no. Mi rifiutai di pagare. Così iniziarono le telefonate minatorie: “Attento al magazzino”, “Guardati tuo figlio”, “Attento a te”. Il mio interlocutore – racconta – si presentava come il geometra Anzalone, voleva parlare con me. Gli risposi di non disturbarsi a telefonare. Minacciava di incendiare il laboratorio. Non avendo intenzione di pagare una tangente alla mafia, decisi di denunciarli».
Denuncia Libero Grassi. Ai magistrati, alle forze dell’ordine, sui giornali, in tv. Perché un imprenditore risponde solo alle logiche di mercato e non alle imposizioni di Cosa nostra. Fa nomi e cognomi perché lui “libero” lo era di nome e di fatto. I suoi genitori, convinti antifascisti, lo avevano chiamato così in onore di Giacomo Matteotti. E così la libertà era impressa nella sua stessa carta d’identità. La portava con sé sempre, come il suo bene più prezioso.
In un’intervista, rilasciata a Michele Santoro nell’aprile del 1991, pochi mesi prima della sua condanna a morte, durante una puntata di Samarcanda, spiega: «Io non sono pazzo a denunciare, io non pago perché non voglio dividere le mie scelte con i mafiosi, perché io ho fatto semplicemente il mio mestiere di mercante». Eccola la sua eversiva normalità. In una città abituata al compromesso, all’omertà, al silenzio, quando non alla connivenza, la sua ribellione ha la forza di una deflagrazione. «Cosa nostra non esiste, nessuno paga il pizzo» dice il presidente di Confindustria di allora. Ma lui non ci sta. La sua ribellione la urla. Prende carta e penna e il 10 gennaio del 1991 scrive al Giornale di Sicilia. Una lettera il cui destinatario è il “suo caro estortore”.
«Volevo avvertire il nostro ignoto estortore – dice Libero Grassi – di risparmiare le telefonate dal tono minaccioso e le spese per l’acquisto di micce, bombe e proiettili, in quanto non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia. Ho costruito questa fabbrica con le mie mani, lavoro da una vita e non intendo chiudere… Se paghiamo i 50 milioni, torneranno poi alla carica chiedendoci altri soldi, una retta mensile, saremo destinati a chiudere bottega in poco tempo. Per questo abbiamo detto no al ‘Geometra Anzalone’ e diremo no a tutti quelli come lui».
La sua condanna a morte sta in queste poche parole. Perché quella posizione plateale meritava una pena esemplare. Perché la sua ribellione non diventasse contagiosa. Perché altri non seguissero l’esempio di un imprenditore che voleva solo fare l’imprenditore. Il 29 agosto del 1991 Salvatore Madonia lo attende sotto casa, in via Alfieri, e lo uccide sparandogli alle spalle. Per quell’omicidio molti anni dopo fu condannato all’ergastolo e, come lui, altri boss del calibro di Totò Riina e Bernardo Provenzano.
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