L’evento-morte nella letteratura

di Rossella Cerniglia

L’evento-morte assume spesso nella letteratura una rilevanza fondamentale, essendo l’ultimo e irreparabile accadimento che chiude l’intera esistenza e quello che meglio si presta a un’analisi delle angosce e delle istanze più profonde dell’uomo, dell’Ignoto che ci si para davanti, spalancandoci l’immenso baratro del Nulla o la Luce salvifica della divinità.

Più spesso, nella finzione letteraria, è il “sentimento della morte” ad essere analizzato, e quanto più esso è drammatico e vero, tanto più il racconto risulta coinvolgente: infatti, cosa vi è di più drammatico? Quale cosa è così materiata di un’angoscia sconvolgente, se non questo decisivo atto della nostra vita?

Il sentimento della morte, la sua analisi, sono espressi, sovente, in letteratura, attraverso una focalizzazione interna che riporta l’io-altro del lettore a questo io che vive la sua morte in diretta. Allora i pensieri di lui divengono i nostri pensieri e le sue angosce le nostre, quelle che, da sempre, abbiamo trattenuto dentro, o a cui, talvolta, abbiamo dato un irrefrenabile sfogo.

Mi viene in mente La morte di Ivan Il’ic nell’omonimo romanzo tolstojano. Torno a rivedere questa morte nel suo farsi, nel suo angosciante divenire, nelle solitarie minuziose argomentazioni del protagonista – che non ha interlocutore e parla a se stesso – nell’amaro struggersi per il dolore fisico, e nella tenace, ossessiva, auscultazione di sé, delle radici che mette in lui questa terribile pianta, nello sperare che forse si potrà ancora guarire e nel drammatico, inevitabile, ricredersi.

In questa morte c’è tutta la solitudine e la tragedia dell’uomo che vive tale evento come un’inesorabilità che schiaccia solo se stesso, anche se tanti gli sono intorno e continuano, all’apparenza, un rapporto di convivenza con lui.

Si tratta, in realtà, di un rapporto fittizio, di pura contiguità: un assistere, dal di fuori, a un evento che non li tocca e non li riguarda. Così, la drammaticità di questa condizione è proprio nel viversi appartato di un dolore per cui non c’è condivisione né conforto. Un dolore che non si arresta, che ci trafigge; dolore ingiustificato che noi solo conosciamo, mentre chi ci sta intorno lo vive con disinteresse o addirittura con fastidio. La morte è, qui, in queste pagine, come pure nell’esperienza reale, un fatto assolutamente personale, un terrificante rito di passaggio, crudele e disperato, a cui nessun altro è ammesso.

Ma negli ultimi istanti di vita, proprio prima di morire, cessa in Ivan Il’ic persino l’astio che, fino a poco tempo prima, aveva nutrito nei confronti di chi è sano, dei tanti che non capiscono o che non hanno voglia di capire, e arriva la Luce, arriva finalmente la liberazione dal dolore, dall’affanno e dalla pena. Ed egli raggiunge un’altra dimensione, rinnega quel suo rancoroso passato che pure aveva ritenuto saggio e onesto – ma che gli appare adesso nella sua piena miseria – per entrare in un al di là luminoso e pieno di autentico perdono e amore.

Ci sono molti altri romanzi e molte altre pagine in cui il tema della morte ci appare vividamente ed esemplarmente rappresentato: una è quella che narra la morte di Emma nel romanzo Madame Bovary; morte che occupa, nel testo, solo un modesto numero di pagine, eppure è così intensa e drammatica da lasciarci il cuore traboccante di commozione e di misericordia – se la misericordia può essere, in qualche modo, considerata un sentimento umano. Una morte, che nei suoi ultimi istanti, ci riporta al senso di rinnegamento e di liberazione che è del racconto precedente.

Eppure Flaubert non indulge sulla realtà interiore di Emma. La sua morte è tragica, densa, oscura. Tutto avviene velocemente, si consuma in fretta con un andamento serrato e spasmodico che non dà respiro. Si ha l’impressione che qualcuno venga sommariamente giustiziato. Ma noi lettori conosciamo la nostra eroina, personaggio straordinario, sappiamo ciò che avviene in lei: come, nella morte, il passato ritorni, in lei, sbiadito, senza definiti contorni e nella quasi insignificanza, poiché di fronte alla morte ogni umana esperienza sbiadisce e perde il suo senso. Anche il cieco che, in un baluginio, compare negli ultimi istanti di vita di Emma, il cieco dal viso devastato e corroso dalla malattia, quello che una volta aveva notato, con raccapriccio, nei suoi viaggi parigini nei quali incontrava l’amante, e che ora le fa sentire la sua sgangherata canzone, è un portatore di questo passato che finalmente Emma -in una nuova consapevolezza- rinnega e allontana da sé. È un portatore di ricordi, di emozioni, di dolori e beatitudini ormai lontani. Così, tutta la sua esistenza – il senso della sua esistenza – si mostra come riassunto e condensato nella significativa – ma tragica e insieme grottesca – risata con la quale Emma conclude la sua drammatica esistenza, e nella quale, forse, si intravede il barlume di una nuova e più rasserenante prospettiva.

Che dire poi della morte di un Giovanni Drogo? O di quella, altrettanto drammatica, di un Mastro-don Gesualdo?

Quella di Giovanni Drogo è accompagnata dal nostro profondo senso di pena per una vita che si consuma nell’attesa di un riscatto dall’insignificanza di una vita monotona e disadorna: aspettativa che, metaforicamente, riassume il senso, sofferto e profondo, d’ogni umana esistenza. E il riscatto che tanto si fa attendere, mentre gli anni gravano su di lui e lasciano segni sulla sua persona, per Giovanni Drogo non arriva. Arriva, invece, irrevocabilmente, la morte, nella solitudine di una stanza, al crepuscolo.

Ancora una volta, la morte, si mostra come evento solitario, una tragedia che si consuma in noi stessi, e che siamo costretti ad accogliere, chinando il capo con sottomissione, senza enfasi né clamori, come un destino che ci piova dall’alto e a cui non serve ribellarsi.

Ma, in qualche modo, tuttavia, è, essa stessa, una forma di riscatto, anche se non è quello che Drogo si aspettava. Ma nella mite accondiscendenza, nella consegna di se stessi all’ineluttabile, che fa pensare fallace e vana ogni cura terrena, ogni interesse per il mondo, s’intravede, forse, l’orizzonte di una vita più alta e più vera.

Tra tante pagine insigni e memorabili, c’è, tuttavia, una morte, sicuramente priva di Luce: è quella di Mastro-don Gesualdo, incagliata com’è nella cura terrena di ciò che è materia. Per essa non v’è riscatto, non v’è mutamento di rotta, non orizzonte ultramondano che lasci, per un attimo, trapelare la sua Luce, ma solo il tormento fisico, e quello per l’alienazione e lo sperpero dei suoi beni, guadagnati con fatica e sudore indicibili, frutto e senso di un’intera esistenza, e, ancora, il rancore, il “cancro” – appunto – di non poter compiere un atto che gli metta a posto la coscienza, un atto di giustizia: quello di non mancare agli obblighi verso i figli avuti da Diodata. Per questo è una morte che non spalanca nulla in quanto a prospettive di realtà sovrastanti. In essa, nessun nuovo orizzonte si disegna. E’ una morte, nella quale, a spalancarsi è solo una finestra: quella attraverso cui ne viene dato l’annuncio, che appare come un evento scontato e privo d’importanza in una squallida e sostanziale quotidianità.

Anche il bellissimo lungo racconto La morte a Venezia di Thomas Mann, ci propone la rappresentazione di una morte straordinaria, esemplare. Benché il titolo sembrerebbe dare ampio spazio a questo evento, esso non racconta, in realtà, una morte nel momento in cui essa si compie. Racconta, invece, di un tragico, inesorabile, destino di morte che ci appare come l’emblema stesso di una città, di una Venezia malata che, sin dagli esordi della descrizione, lascia presagire una tale drammatica ineluttabilità. La morte alita da essa, dai suoi mefitici ristagni, dal vento sciroccoso che le strappa e porta con sé i miasmi mortiferi delle sue acque coi quali si adopera a diffondere il colera. La morte di Ashenbach,, protagonista del racconto, si lega, sin dall’inizio, a questo destino di morte, sospeso e stagnante sulla città e sull’intera atmosfera del racconto.

Von Aschenbach, scrittore senescente, nel suo soggiorno a Venezia, vive dentro a questo clima e dentro a questa morte, che diviene via via più presente e corposa e s’accompagna alla straziante follia della sua anima innamorata della bellezza, incarnata nel giovinetto Tadzio, il portatore di morte -come sono appunto l’assoluta bellezza e l’amore che ne deriva, quando esso rimanga inappagato.

Lo strazio per l’irraggiungibile Tadzio ha fine solo con la morte fisica dell’amante: poiché l’amore necessita di una “appropriazione” come fine della tensione crescente, o di un epilogo in cui l’anima lascia consumare se stessa sino alla fine.

Con tale racconto, però, siamo già nell’ambito della letteratura decadente, intimamente pervasa da un senso di morte che sconfina e dilata il senso delle singole morti. Una morte unica e universale sembra prorompere dalle cose, ma è il sintomo di una interiorità malata. Il paesaggio alita morte anche in molte pagine dei romanzi dannunziani (e non solo): una morte che è dell’anima, e parla nelle cose, nel mondo che ci circonda. Una morte che è inquietudine come nella poesia di Pascoli; è silenzio e solitudine, incubo lugubre, nefasto, come in tanta poesia novecentesca, rimpianto e nostalgia per epoche tramontate, la cui morte appare nello sfacelo delle rovine, nelle pietre che portano lontana memoria dei fasti e delle glorie passate.

Foto di prima pagina tratta da ilpaesenuovo.it

 

 

 

 

Giulio Ambrosetti

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