«Ho sentito da un po’ l’esigenza di questo libro. Un libro di testimonianza e di racconto, un atto di provocazione e sfida perché si racconta ciò che non deve essere raccontato, dice ciò che non deve essere detto». Così Antonio Ingroia, che ieri ha presentato alla Feltrinelli di via Cavour la sua ultima fatica letteraria, Le trattative. Uno sguardo e un bilancio soprattutto su una stagione a cui si cerca da tempo di porre un punto finale, iniziato all’indomani delle stragi del ’92 e terminato, forse, con la sentenza di condanna ad aprile del processo trattativa. Un termine che l’ex magistrato, che di quel processo è stato il primo istruttore, declina al plurale: «Quando dico le trattative, intendo lo scegliere sempre la strada più breve, quella dell’accordo, del patto – spiega -. Quella stagione del ‘92-‘93 è stata cruciale. La mafia non sarebbe mafia senza il suo rapporto col potere politico. È grave che ci siano stati ben tre governi, Amato, Ciampi e Berlusconi, sotto la minaccia della mafia che invece di prendere posizione hanno scelto di trattare con lei».
La sentenza di aprile è, per lui, «una sentenza storica» in tutti i sensi. Malgrado non abbia inspiegabilmente ricevuto il risalto necessario sulle prime pagine dei giornali: «Il conformismo dell’informazione oggi è spaventoso, quasi senza precedenti. Nel senso che nella storia del nostro Paese ci sono stati momenti di contrapposizione forte, ma oggi prevale un’omologazione spaventosa, si ha paura di distinguersi da ciò che impone la corrente prevalente del Paese e credo che questa sia una vicenda emblematica – dice – Questo processo sulla trattativa è il primo, e lo dico un po’ rivendicando anche il copyright, nella storia giudiziaria del nostro Paese nel quale vengono imputati insieme, con la stessa imputazione, uomini dello Stato (e non gente qualunque, ma di spicco, vertici dei sevizi segreti, della polizia, e della politica) e i capi dell’organizzazione mafiosa. Condannati per lo stesso reato, condanna che riguarda non il fatto di avere trattato, ma di avere insieme minacciato lo Stato e fatto in modo che quella minaccia arrivasse a buon fine».
Ma dopo le considerazioni d’obbligo su questa sentenza, tocca alle motivazioni recentemente depositate del processo Borsellino quater a Caltanissetta. «Altri uomini dello Stato hanno commesso uno dei più gravi depistaggi della storia del nostro Paese scrivendo a tavolino le dichiarazioni di un finto pentito per incastrare degli innocenti mafiosi per salvare lo Stato – continua Ingroia -. Uno Stato che ha messo in campo le sue preziose risorse per proteggere e salvare se stesso». E poi l’appello ai tanti accorsi ad ascoltarlo alla libreria di via Cavour, in prima fila i cittadini di Scorta civica, che chiedono la restituzione della scorta all’ex pm, rimasto da maggio senza protezione. «La magistratura non ha la forza di affrontare tutto da sola, serve sostegno, specie quello parlamentare. Tutto questo in altri Paesi avrebbe occupato le prime pagine dei più grandi giornali. È quello di cui si ha paura, sapere è potere e, quindi, si fa in modo che gli italiani non si rendano conto della verità».
Non c’è stata, fino ad ora, nessuna commissione d’inchiesta che, a suo dire, abbia preso di petto questa questione. Per non parlare dell’attuale nuovo governo, che si racconta come il governo del cambiamento, ma che come gli altri nei suoi proclami e nelle sue campagne non ha mai fatto cenno alla lotta alla mafia intesa come priorità del Paese. «Perché in Italia non si riesce a far decollare un approccio con la verità senza sconti, schietto e onesto?», domanda infine Ingroia.
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