Le radici inesistenti della comunità siciliana

“Siamo tutti a Sud di qualcosa…”
(Leonardo Sciascia)

di Cettina Vivirito

 

La Sicilia, crocevia di personaggi reali e mitologici, credibili e incredibili, isola di volta in volta proposta come immagine della costrizione, dell’arretratezza, dell’impervietà, del paradosso, della mafia, del tradimento, della fuga, della felicità e della bellezza, della limitazione, della deprivazione, infine è un’enciclopedia simbolica dell’ignoto, una metafora cosmica dove il regno della vita e quello della morte si toccano e sembrano rimandare a una loro intimità primigenia.

Non è un caso che il letterato inglese Tommaso Moro abbia scelto proprio l’ “isola”, nella sua opera più famosa, “Utopia”, per dare vita al sogno rinascimentale di una società ideale, dove fosse la cultura a regolare la vita degli uomini; la natura illusoria della realtà si manifesta maggiormente nella solitudine, una condizione molto vicina alla vita insulare: dopotutto, aprendo la finestra di mattina presto, mi è sembrato che anche le isole Eolie, avvolte dalla nebbia fittissima che impedisce di distinguerne nettamente i contorni, nel loro silenzio e pace quasi innaturali, siano un mondo lontano e distaccato da quello comune, irreale e pervaso da una misteriosa natura onirica.

A questa caratteristica geografica di isola non è facile sfuggire, ma al contrario degli scozzesi, degli islandesi, e di tutti gli isolani del mondo la nostra specificità consiste nell’esserne transfughi, un esempio ne sono state le vite dei siciliani Elio Vittorini, Luigi Pirandello, Vincenzo Consolo. Sentiamo una straordinaria familiarità con quanti sbarcano sulla nostra isola, ma sono diretti altrove, e viviamo di fatto quel separatismo che in termini organizzativi o politici non diventa mai Indipendenza, considerata una splendida ma improbabile utopia.

La storia dello scetticismo siciliano inizia probabilmente con l’importante epoca di transizione che investì la penisola italiana quasi mille anni fa, quando i suoi abitanti uscivano dai “secoli bui”. Già nel 1100 si erano consolidati, in due diverse parti della penisola, due regimi politici sorprendentemente diversi, entrambi innovativi ed entrambi destinati ad avere conseguenze di grande rilievo in campo sociale, economico e politico sul Paese: nell’undicesimo secolo, lungo tutta la penisola, il sistema di governo imperiale, quello bizantino a Sud e quello germanico a Nord, attraversò un periodo carico di tensioni e di debolezza tali che ridussero il sistema al collasso e vide di fatto passare la mano (e l’iniziativa) alle forze locali.

Nel Sud, il crollo del governo centrale durò poco, da subito sulle fondamenta bizantine e arabe si creò il Regno dei Normanni; nel Nord invece tutti i tentativi di risuscitare un impero fallirono con il conseguente trionfo di particolarismi locali; i Comuni divennero stati autonomi, tanto che questo periodo storico viene a volte chiamato “l’Italia dei Comuni”.

Al Sud, sotto il governo di Federico II la Sicilia pur vivendo una rinascenza e una fioritura di studi mai visti prima e fosse dotata della struttura burocratica più avanzata d’Europa, nelle strutture sociopolitiche era e sarebbe rimasta un regno strettamente autocratico, basato su un’organizzazione gerarchica rinforzata proprio dalle riforme di Federico. Mediante le Constitutiones furono confermati i diritti feudali dei baroni e venne dichiarato “sacrilego” sfidare ogni decisione del re.

Come Ruggero II, suo grande predecessore, Federico aveva una concezione semi divina e mistica del ruolo di monarca, il suo potere poggiava sulla paura, sul terrore, a volte sulla crudeltà. La campagna militare contro i Comuni del Nord fu condotta, disse, per impartire una lezione a chi “preferiva il lusso di un’imprecisata libertà a una pace stabile”. Ai segni d’insofferenza e alla voglia di autonomia delle città del Sud, Federico rispose incorporandole nel Regno Normanno e rendendole soggette a un sistema capillare di funzionari locali che rispondevano direttamente al re. La vita di artigiani e mercanti fu regolata dal centro e dall’alto, non come nel Nord della penisola, dall’interno.

Con la morte di Federico II e il conseguente declino dell’autorità del sovrano aumentarono il potere e l’autonomia dei baroni mentre le grandi città, e anche le piccole, rimasero sempre in stato di sudditanza. Anche se nei sette secoli successivi l’Italia meridionale fu oggetto di contesa da parte di Spagna e Francia, questa struttura gerarchica avrebbe resistito sostanzialmente inalterata. Il regime rimase una monarchia feudale, anche se a volte illuminata, e i casi d’illuminismo tra i successori di Federico furono molto più rari degli esempi di rapacità.

Come il regime autocratico di Federico al Sud, anche il nuovo sistema repubblicano al Nord nacque in risposta alla violenza e all’anarchia delle ribellioni che regnavano endemiche nell’Europa medievale, perché le vendette selvagge tra fazioni rivali aristocratiche avevano devastato le città italiane e le campagne, al Nord come al Sud. La soluzione che emerse al Nord fu diversa in quanto si reggeva meno sulla gerarchia verticale e più su forme di collaborazione orizzontale. I Comuni nacquero, all’inizio, come associazioni volontarie formatesi quando gruppi di vicini giurarono di assistersi reciprocamente, di difendersi a vicenda e di cooperare dal punto di vista economico.

Daniel Waley parla dei Comuni come del “paradiso delle commissioni”, citando il caso di Siena con i suoi 5000 uomini che aveva 860 posti comunali part-time, mentre nei Comuni più grandi il consiglio comunale poteva raggiungere alcune migliaia di consiglieri, molti dei quali avevano un ruolo attivo nella discussione; il successo del repubblicanesimo comunale dipese dalla disponibilità dei capi a condividere con altri cittadini la responsabilità del potere, pari a pari.

Complessi codici legali furono promulgati per limitare la violenza dei potenti. Il consiglio comunale di Modena già nel 1220 era formato da molti artigiani e bottegai, compresi i pescivendoli, i riparatori di abiti, gli stracciaioli e sempre numerosi fabbri. Il repubblicanesimo civile portò inevitabilmente una folata di partecipazione popolare alla vita politica senza precedenti nel mondo medievale.

Al di là delle corporazioni delle arti e dei mestieri vi erano altre organizzazioni locali che avevano un ruolo importante nel governo delle città, ad esempio le vicinanze (associazioni tra vicini di casa), il populus (organizzazioni parrocchiali che amministravano i beni della parrocchia ed eleggevano i preti) le confraternite (società religiose per la mutua assistenza), gruppi politico-religiosi legati tra loro da solenni giuramenti e le consorterie, costituite per garantire la sicurezza reciproca.

Le inevitabili liti che sorgevano all’interno di questi Comuni e tra una comunità e l’altra richiedevano difensori ben preparati, mediatori e uomini di governo e un continuo rinnovarsi della moralità civile, per prevenire eventuali lotte intestine (un ruolo cardine si trovò a svolgerlo il podestà, un giurista-amministratore itinerante, di grande esperienza professionale). Risultato di un senso civico che si consolidava fu l’invenzione del credito da parte delle repubbliche medievali italiane, una delle più grandi rivoluzioni economiche della storia mondiale che avrà poi vaste implicazioni.

La parola “credito” deriva dal verbo “credere”: lo svilupparsi di una rete di associazioni, il fiorire della solidarietà non più circoscritta alla parentela furono determinanti affinché la fiducia nel prossimo si estendesse e si approfondisse. Il senso di onestà, rafforzato da quello di appartenenza a una comunità integrata, non reso obbligatorio da precise imposizioni legali rese possibile la partecipazione, mediante il risparmio, di vari strati sociali al processo produttivo.

Un anonimo cronista del 1291 scrisse che “C’era una certa tensione a Parma e allora quattro gilde, i macellai, i fabbri, i calzolai e i pellicciai insieme a giudici notari ed altre corporazioni della città, giurarono insieme di aiutarsi reciprocamente e avendo prese certe misure, ogni tensione cessò”. All’inizio del Trecento, l’Italia si trovò così non con uno ma due nuovi sistemi di governo: nonostante Palermo fosse una delle tre città d’Europa (insieme a Venezia e Firenze) maggiori, ciascuna con una popolazione di centomila abitanti, i due sistemi erano costituiti da due società differenti; nel Settentrione del Paese il popolo era composto di cittadini, nel Meridione di sudditi.

Nel Nord l’autorità legittima era stata solo delegata ai pubblici funzionari che rimanevano responsabili davanti a chi aveva loro affidato i suoi interessi. L’autorità legittima nel Sud era invece monopolio del re, il quale rispondeva del suo governo solo a Dio. Nel Nord, anche se il senso di religiosità rimaneva profondo, la Chiesa era solo una delle istituzioni portanti della comunità; nel Sud invece grazie ai possedimenti era uno dei feudatari più ricchi e potenti.

Ci fu comunque un evento che a buon diritto si può considerare un antefatto dell’autonomia siciliana, la nascita della Communitas Siciliae. Ebbe luogo nel 1282, nel frangente storico dei Vespri siciliani; i suoi promotori si proponevano di dotare la Sicilia di una struttura federativa comunale, la Communitas, che sarebbe stata sottoposta alla protezione della Sacro Sancta Romana Ecclesia, a riconoscimento della formale dipendenza feudale del regno dal papato.

Il progetto di una federazione di liberi Comuni alla maniera lombarda e toscana si rivelò in brevissimo tempo politicamente insostenibile, destinata fin dall’inizio a naufragare di fronte all’opposizione espressa dal connubio politico tra il francese Martino IV, eletto appena l’anno prima, il Regno di Francia, da cui Martino proveniva, e Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia Luigi IX: questa avversione pose fine alle velleità autonomiste e favorì le aspirazioni della componente ghibellina i cui esponenti perorarono la soluzione dinastica della rivolta, mediante l’ingresso politico di un nuovo soggetto, Pietro III d’Aragona, la cui legittimità, ai loro occhi, proveniva dalla discendenza dagli Hohenstaufen di sua moglie Costanza, figlia di Manfredi.

L’esperienza politica coinvolse un nucleo di città, esclusivamente della parte insulare del Regno di Sicilia, che si raccolsero in Parlamento generale nella città di Messina: giurando solennemente fedeltà e sottomissione alla Chiesa cattolica, affermarono il rifiuto di nuove sottomissioni a un re straniero, dichiarandosi al contempo una confederazione di liberi comuni, alla maniera delle realtà civiche del centro-settentrione.

L’ostilità della Chiesa si concretizzò nella discesa in armi di Carlo d’Angiò che, giunto in Sicilia, cinse d’assedio Messina, strenuamente difesa dal capitano Alaimo da Lentini, considerato il più autorevole esponente delle aspirazioni particolaristiche della Comunità di Sicilia.

A causa dell’intima debolezza della piccola feudalità e della borghesia siciliana, della mancanza di esperienza civica e di cooperazione, nella Communitas prevalse il blocco popolare-baronale legittimista, una corrente che si riallacciava alla tradizione sveva e, attraverso Costanza di Hohenstaufen, alla corona d’Aragona.

La flotta di Pietro d’Aragona, agli ordini dell’ammiraglio Roggero di Lauria, sbarcò a Trapani il 30 agosto 1282. Con la discesa di Pietro d’Aragona si compiva la metamorfosi del Vespro da rivoluzione a guerra (che durerà 90 anni) e si realizzava sull’isola l’avvicendamento tra il potere angioino e quello aragonese. L’avventuriera Macalda di Scaletta, reclusa, stigmatizzava dal carcere la piega assunta dagli eventi, rivolgendosi a Roggero di Lauria, ammiraglio italiano al servizio degli aragonesi, venuto a farle visita in carcere, con tutta la propria amarezza: “Ecco come siamo rimeritati da Pietro vostro Re. Noi lo abbiam chiamato e fattolo nostro compagno non già nostro Signore; ma egli, recatosi in mano il dominio del regno, noi suoi sozii tratta siccome servi”(Bartolommeo di Neocastro, Historia Sicula, cap. XCI).

Lo sgretolamento di questa complessa realtà cominciò nel Trecento. Le lotte tra le varie fazioni cittadine, la carestia, la peste, nonché la Guerra dei Cent’anni cominciarono a minare lo spirito e a destabilizzare gli stati comunali. Quasi ovunque, Guelfi e Ghibellini e cento altre fazioni si scannavano tra intrighi e faide sanguinose. Le Signorie, nuove dinastie non democratiche sarebbero durate a lungo, trasformandosi impercettibilmente nei principati rinascimentali.

In Sicilia re e baroni si trasformarono presto in predatori autocrati. E mentre al Nord le famiglie dei mezzadri avevano sviluppato una ricca rete di scambi reciproci e avevano coltivato rapporti di buon vicinato, (un esempio ne fu l’aiutarella, lo scambio di lavoro tra le famiglie nei momenti chiave del calendario agricolo, ad esempio al momento della mietitura), e da un punto di vista culturale, nelle lunghe sere d’inverno, le famiglie si raccoglievano nelle stalle o nelle cucine delle fattorie per giocare a carte, lavorare a maglia e rammendare, ascoltare e raccontare storie, partecipando alla veglia (che comprendeva il dare ospitalità a turno e un complesso scambio di visite), al Sud, in contrasto con tutto questo, una relazione del 1863 concludeva che in Calabria, allora terra desolata, la mancanza del senso della comunità risaliva a un’abitudine appresa in secoli di dispotismo quale forma di chiusura e rassegnazione. La realtà di cui ci ha reso un affresco indimenticabile Ignazio Silone con i suoi cafoni di Fontamara.

In poche parole, la mancanza di libertà, la repressione feroce delle rivolte, l’isolamento e l’eterna sudditanza fecero del Sud, che non conobbe Età Comunale, una società dominata dalla sfiducia, dove la fede pubblica era stata ridotta al minimo. Violenti movimenti di protesta, compreso quello che per pura convenienza storica venne definito “brigantaggio”, scoppiarono come temporali estivi nel tardo Ottocento in tutto il Mezzogiorno, non producendo peraltro nessuna organizzazione permanente e non lasciando traccia di solidarietà collettiva.

Il Sud rimase, come disse tristemente Gramsci, “una grande disgregazione sociale”. L’eterno risorgere dell’antica “cultura della sfiducia” non confutata né dallo Stato né da norme e reti civiche, fece sì che la mafia mettesse a punto una specie di leviatano privatizzato: offriva protezione contro i banditi, contro i furti nelle campagne, tra gli abitanti delle città rivali. L’attività più specificatamente mafiosa consiste d’altronde ancora oggi (ma con sempre maggiori difficoltà) nel produrre e vendere una merce molto speciale, intangibile e tuttavia indispensabile nella maggioranza delle transazioni economiche: la fiducia.

Per il singolo cittadino imprigionato nella solitudine istituzionale del Mezzogiorno, “scegliere di ottenere la protezione del mafioso non si può considerare del tutto irrazionale”, afferma R. Putnam, professore e direttore per gli Affari Esteri alla Harvard University.

Durante tutto il Novecento questa divaricazione Nord/Sud è cresciuta sempre, indipendentemente dalla situazione mondiale, dai cambiamenti costituzionali e dai profondi cambiamenti nella politica economica (il tentativo autarchico del periodo fascista, l’integrazione europea e il massiccio programma di investimenti nel Mezzogiorno degli ultimi quarant’anni).

Tra le cause di quella che venne poi inquadrata come “questione meridionale” vi furono certamente non la distanza dai mercati, il terreno sfavorevole e la mancanza di risorse naturali come pure qualche storico ha affermato, ma la miope politica dello Stato, specialmente alla fine dell’Ottocento, con particolare riguardo alla politica commerciale (il libero mercato che ha soffocato la neonata industria meridionale e una successiva forma di protezionismo che favorì l’industria del Nord); alla politica fiscale (tasse al Sud, e spesa pubblica a beneficio del Nord nel campo dell’istruzione e dell’industria bellica nonché la bonifica agricola); alla politica industriale (che favoriva gli interessi del Nord, incoraggiando l’alleanza tra l’industria pesante e le grandi banche) alla mancanza di cooperazione e di senso civico nel Mezzogiorno la cui continuità monarchica aveva reso inesperibile, che persiste con netta evidenza in consuetudini inalienabili, e ne abbiamo esempi quotidiani.

Uno di questi è la tragedia del pascolo demaniale, ad esempio, dove nessun pastore può porre dei limiti al gregge di qualcun altro: tuttavia il pascolare incontrollato distrugge questa risorsa pubblica dalla quale dipende il sostentamento di tutti. Oppure il mantenimento dell’aria pulita o dei giardini pubblici o della sicurezza di un quartiere, cose godibili da tutti indipendentemente da chi contribuisce, perciò nessuno ha interesse a contribuirvi.

Mancanza di partecipazione civica è pure quella della logica dell’azione collettiva dove tutti i lavoratori trarrebbero vantaggio se scioperassero simultaneamente, se non fosse che chiunque alzi la bandiera dello sciopero rischia il tradimento della retribuzione, perciò tutti aspettano, sperando di trarre beneficio dall’audacia di qualcun altro. E infine ma non per ultimo nel dilemma del prigioniero: se due complici sono tenuti in isolamento e a ciascuno viene detto che se accuserà il compagno, ne uscirà senza danni, ma se non parla mentre il partner confessa, sarà punito in modo particolarmente severo, probabilmente entrambi taceranno e a entrambi quindi verrà data una pena leggera; ma se non riescono a raccontare la stessa storia ognuno dei due farà meglio a cantare, qualunque cosa faccia l’altro.

In tutti questi scenari possibili tutti trarremmo vantaggi se cooperassimo; ma non lo facciamo. Ognuno ha un incentivo per disertare e fare il proprio gioco aspettandosi razionalmente che l’altro lo tradisca; ecco come individui razionali possono produrre risultati non razionali, se guardati dalla prospettiva di tutti i coinvolti.

Il problema principale, secondo alcuni, sarebbe la mancanza di sanzioni credibili contro chi tradisce: Hobbes, uno dei primi grandi teorici a studiare la causa di questa “perplessità”, offrì la classica soluzione, ovvero l’obbligo imposto da parte di terzi. Se entrambe le parti danno al Leviatano il potere di imporre il rispetto reciproco degli impegni, il guadagno che ne ottengono è la reciproca fiducia, necessaria alla vita civile.

Lo Stato mette i suoi sudditi in grado di fare quello che non possono fare da sé, ovvero fidarsi l’uno dell’altro. Ognuno per sé, lo Stato per tutti. Ma anche questa soluzione genera non poche “perplessità”; intanto l’imposizione coercitiva ha un costo; poi l’accordo imposto da una entità imparziale è di per sé un bene pubblico, esposto allo stesso dilemma che cerca di risolvere. In poche parole a chi toccherebbe il compito di garantire che il sovrano o chi per lui non tradirebbe? Se lo Stato ha una forza coercitiva, allora quegli stessi che comandano lo Stato possono usare la forza per proteggere i loro interessi a scapito del resto della società.

La cooperazione volontaria è senz’altro più facile all’interno di una comunità che ha ereditato una provvista di “capitale sociale” in forma di norme di reciprocità e reti di impegno civico. Si fonda su un senso vivissimo del valore che la partecipazione a queste forme di collaborazione ha per ciascun partecipante, non su un vago senso etico della forza dell’unione di tutti gli uomini né su una visione organica della società.

Sono le reti sociali che fanno sì che la fiducia si trasmetta in modo transitivo: io mi fido di te, benché non ti conosca personalmente, perché mi fido di lei e lei mi assicura che ha fiducia in te. La maggior parte dei capitali sociali sono, secondo al definizione di Albert Hirschman, “risorse morali”, ovvero risorse la cui fornitura aumenta invece di diminuire con l’uso, e che semmai si esauriscono se non sono usate.

Di contro, la strategia del “mai cooperare” diventa un equilibrio stabile quando il cittadino è diventato scettico rispetto alla possibilità di cambiamento come fosse un sogno blasfemo di rinascere alle sconfitte, le ultime eresie del pensiero. Diventa irrazionale cercare un’alternativa basata sulla cooperazione, eccetto forse nell’ambito dei vincoli familiari più stretti. Il “familismo amorale” che Banfield aveva notato nel Mezzogiorno non è, per l’appunto, irrazionale, ma l’unica strategia razionale per sopravvivere alla luce di una visione irredimibile della società.

In questa Sicilia dove l’Autonomia viene regolarmente disattesa in ogni suo articolo, che vive furiosa d’interesse privato e indifferente al bene comune, sopravvive e resiste una Sicilia partecipe, operosa, capace di bellezza e d’ironia, ma è così marginale nella quotidiana sconfitta dell’intelligenza da non essere riuscita ad organizzare una propria modalità reattiva.

In questa Sicilia sporca di terra e odorosa d’inchiostro e di gelsomini, sospesa tra la rarefatta severità delle leggi e il rigore del ragionamento filosofico, contraddittoria sino al collasso non possiamo che trovarci d’accordo con Vera Zamagni, studiosa della storia economica del Mezzogiorno, che incoraggia a procedere con la trasformazione delle strutture locali piuttosto che attendere iniziative nazionali, fino a renderci indipendenti.

Potremmo noi siciliani essere determinati in tema d’Indipendenza al punto da concorrere con la Scozia che, isola anch’essa, è riuscita a preoccupare l’imperturbabile Gran Bretagna? E soprattutto ne saremmo capaci pur senza cercare “nessun leader, nessun liberatore, nessun duce e nessun Robin Hood?

“Ne abbiamo già provati tanti e tutti, prima o poi, si sono venduti al potentato di turno”, ha scritto Manuli commentando un articolo di Massimo Costa su questo argomento su questo giornale. Ma qualcuno dei nostri grandi scrittori siciliani lo aveva già affermato: “La particolarissima viscosità della storia siciliana la si deve anche al fatto che qui si è sempre sperato in cambiamenti che venivano dal di fuori e dall’alto: ogni volta che un viceré lasciava Palermo, in tutti i quartieri della città si faceva festa, perché si pensava che il nuovo sarebbe stato migliore del precedente e che avrebbe finalmente apportato il cambiamento. Nessuno tuttavia pensava a rovesciare l’istituzione, le plebi essendo perfettamente avvezze a quest’idea del mutamento che scende dall’alto”. Era stato Leonardo Sciascia.

Privi di tradizione civica, arresi alla Storia e pervasi di pessimismo riusciamo persino a tollerare che una grande scrittrice come Maria Corti abbia potuto scrivere poco tempo fa:

“La Sicilia non è il mondo, è solo un’isola che gli uomini hanno reso sgradevole, mettendole dentro qualcosa di nero che è penetrato tra la gente e non si riesce a scuotere via”.

 

 

Redazione

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