Cinque W, come sempre. È da lì che si parte ogni volta che si parla di giornalismo.
Ed è da lì che dobbiamo ricominciare per discutere di cosa sia il giornalismo universitario: tra i redattori di Step 1, tra i docenti di quest’Ateneo e con i nostri lettori e amici, vicini e lontani.
Urge un dibattito, per nulla accademico, che nasca adesso, in un momento e in un luogo preciso. Nel momento in cui, dentro il nostro Ateneo, si mette in dubbio – su iniziativa dello stesso Rettore – il senso ed il valore del progetto di questo giornale. Nel momento in cui Step1 è invitato ufficialmente, per il secondo anno consecutivo, al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia.
Un giornale scritto da studenti che studiano comunicazione è o non è un progetto didattico? Un giornale didattico deve essere un vero giornale, libero e pluralista, o va visto come una semplice propaggine dell’Ufficio stampa d’Ateneo?
Sono questi i temi da cui dipende il futuro di Step1. Ripercorriamoli, appunto, attraverso le cinque W.
Who. Prima domanda: chi fa il giornale? La risposta è semplice: giornalismo universitario è quello fatto dagli studenti. Non da soli, naturalmente. Essi devono avere il supporto di tutor professionisti, che insegnino il mestiere e le sue regole, che controllino la correttezza deontologica e legale degli articoli, che aiutino ad affinare la scrittura e spingano a confrontarsi con forme sempre più complesse di lavoro, con le innovazioni della tecnologia, con i nuovi linguaggi. Ma un giornale universitario ha anche una risorsa in più: il sapere e la voglia di discutere di tutti quei docenti che, da dentro l’Ateneo, intendano contribuire – con editoriali, opinioni, spunti di dibattito – alla libera circolazione delle idee.
What. Già. Cos’è giornalismo? È, prima di tutto, ciò che la legge definisce come tale. E secondo la legge «è diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà d’informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e della buona fede».
Queste regole non vanno applicate solo al Corriere della Sera, ma valgono anche per un giornale scritto da studenti. La libertà di informazione e di critica – principio di rango costituzionale – va praticata anche all’Università.
Ma c’è chi confonde giornalismo e comunicazione istituzionale, o “pubblica” (un neologismo che fa riferimento ad alcuni sbocchi professionali: gli uffici stampa delle pubbliche amministrazioni, gli uffici delle relazioni col pubblico, ecc.), chi sostiene che il giornalismo universitario vada posto sotto la tutela dell’informazione ufficiale d’Ateneo, sotto il vaglio dell’ufficio stampa o del portavoce del Rettore. Se applicassimo questo discorso ai grandi giornali, l’assurdità sarebbe evidente: nessuno penserebbe mai che il Corriere della Sera possa diventare un supplemento della Gazzetta Ufficiale. Perché ciò che è assurdo per i grandi dovrebbe diventare logico e naturale per i piccoli? È un modello profondamente sbagliato, inconciliabile con la formazione al giornalismo; conformista, di scarso livello e tendenzialmente autoritario.
When. Il giornalismo universitario non è un fenomeno recente, esistono ormai numerose ricerche, anche storiche, sulla stampa studentesca. Il suo sviluppo e la sua capacità di comunicazione hanno ricevuto però una potente accelerazione dal web. Magazine, radio, tv, siti web universitari nascono sempre più frequentemente in tutta Italia. Nascono con l’intenzione di informare sui più vari aspetti della realtà, senza altri limiti che non siano quelli del mestiere che si impara facendolo, e della correttezza deontologica. L’esperienza catanese – di cui fa parte Step1, così come ne fa parte il settore giornalistico di Radio Zammù – è tra le più longeve, e gode anche di una discreta considerazione fuori dall’Ateneo e dal territorio di appartenenza. Siamo dunque di fronte a un paradosso: proprio mentre altrove si va imboccando la stessa strada che noi seguiamo da anni, e di cui siamo stati anticipatori, ci viene proposto di far dietrofront. E di tornare all’informazione in livrea.
Where. Il giornalismo universitario è legato ad un luogo (l’Università) che è a sua volta parte di luoghi più ampi (la città, il mondo). Che esso debba coltivare il suo specifico, quello di raccontare il mondo accademico, è fuori discussione. Il programma del Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia non mette in discussione neanche il resto: «Qual è la missione che i giovani aspiranti giornalisti si prefissano per “movimentare” il loro Ateneo e la loro città?». Eppure, proprio l’idea che il giornalismo universitario esca dalle aule è quella che ispira più diffidenza. Ma si può negare agli studenti che si accostano al giornalismo il diritto-dovere di affacciarsi sul mondo che li circonda? Si può insegnare l’etica della notizia spiegando loro che ci sono cose che non vanno raccontate? Si può farlo, poi, in una città in cui le voci che raccontano sono già così rare? Si può insegnare un mestiere cominciando dal negarne la deontologia?
Why. I giornali universitari si fanno per insegnare e per permettere agli studenti di imparare. Sono esperienze didattiche che devono coinvolgere chi studia e pratica il mestiere, perché solo chi lo conosce potrà insegnarlo agli altri. Visto che nessuno ha mai imparato una professione semplicemente rimanendo seduto sui banchi, è ovvio che le esperienze didattiche sul giornalismo prevedano la prassi, come anche le esperienze delle grandi scuole di professione ci insegnano e come ci insegna la stessa storia del giornalismo. Eppure c’è chi afferma che un giornale che insegni una professione attraverso la pratica vada oltre il suo statuto didattico, imbocchi una strada pericolosa. Qui non è più in questione solo la natura del giornalismo. È pure in questione la natura della didattica, la legittimità di un apprendimento basato (anche) sul fare, e non semplicemente sull’approccio teorico. È in discussione, in fondo, il senso stesso del verbo insegnare.
È forse la più sottile delle questioni fin qui poste. Ma non è certo – dentro un Ateneo – quella meno importante.
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