Legittimare il ricorso al dubbing potrebbe apparire peregrino. E in parte lo è. Il più delle volte costituisce un’operazione arbitraria, osceno ircocervo concepito per lusingare la pigrizia mentale dello spettatore medio, sia esso cinematografico o televisivo. Ma sarebbe semplicistico liquidare l’intero fenomeno in modo tanto sbrigativo.
Il doppiaggio come tale nasce negli Stati Uniti, quando con l’avvento del sonoro si presenta il problema dell’adattamento dei film per un mercato che, particolarmente per le major, non poteva essere semplicemente quello del pubblico anglofono. E la cosa sembra avere effettivamente risvolti meramente
commerciali. Tuttavia autorevoli ricerche – condotte sulla scorta degli studi di Bernard Bosredon e Irène Tamba – hanno messo in luce l’aspetto culturale della questione.
L’opera di traduzione che presuppone il doppiaggio ha reso possibile la diffusione di espressioni e immagini nuove. Determinando di fatto un arricchimento del nostro patrimonio linguistico.
E’ il caso, per intenderci, di citazioni letterali e richiami presenti in titoli della stampa quotidiana quali “L’Inter balla da sola “(dal Corriere della Sera del 4 marzo 2002, NdR) o “Tutti pazzi per Baggio” (dal Corriere della Sera del 23 aprile 2002, NdR). Il fatto che i titoli originali dei film interessati siano, rispettivamente, “Stealing Beauty” e “There’s something about Mary”, permette di notare come la possibilità del riferimento intertestuale sia determinata proprio dalla traduzione.
In ambito neorealista, quella del doppiaggio era una fase fondamentale, dal momento che il regista spesso si serviva di attori non professionisti ai quali, in luogo delle battute, venivano fatti pronunciare numeri e frasi casuali.
In generale, è difficile stabilire se si possa riconoscere reale artisticità ad una pratica così diffusa in paesi come il nostro. Emblematico è il caso della versione italiana del musical diretto da Joel Schumacher, Il fantasma dell’ Opera: virtuosismi vocali di sicuro effetto che tuttavia faticano spesso a seguire il movimento delle labbra dei protagonisti.
Bisogna ammettere che l’adattamento, prima che il doppiaggio, può essere particolarmente infelice in casi come quello di un film recentemente interpretato da Jim Carrey, il cui titolo “Eternal Sunshine of the spotless mind” , tratto da un verso del poeta Alexander Pope, diventa lo stucchevole Se mi lasci ti cancello.
Ma positivo è senz’altro l’esempio offerto da “Alexander”. Con l’irritante connotazione politica che assume un accento inglese nei greci, e irlandese nei macedoni, è pressoché inevitabile preferire la versione italiana del film di Stone.
Come abbiamo visto, un atteggiamento fondamentalista rischia di non rendere giustizia di sfumature contrastanti…
http://www.ledonline.it/lededizioniallegati/viezzi.pdf
http://www.teatroimpulso.it/APPUNTI/vari/Doppiaggio.pdf
http://www.alerossi.com/storia.html
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