L’Autonomia siciliana compie 66 anni

Sessantasei anni fa la Sicilia conquistava l’Autonomia. Per ricordarlo – nel caso in cui qualcuno se ne dimentichi – i governanti hanno chiuso le scuole. Almeno a noi risulta così. Ben fatto: forse è l’unico modo per ricordare – o per far sapere – alle giovani generazioni della nostra Isola (ma non soltanto a loro) che la nostra è una Regione Autonoma.

Che dire? Ieri abbiamo pubblicato un comunicato del Fronte nazionale siciliano. Dove si dicono alcune, importanti verità. A cominciare dal fatto che, oggi, c’è veramente poco da ‘festeggiare’. Perché l’Autonomia siciliana è stata tradita dagli ‘ascari’. Cioè da chi ha svenduto gli interessi della Sicilia a destra e a manca.

Non è certo questa la sede per un approfondimento sulla storia dell’Autonomia siciliana. Oggi ci limiteremo ad alcune considerazioni. Cominciando col dire che la Sicilia, entrando a far parte dell’Italia, nel 1860, con un plebiscito truffaldino, non ha fatto un grande affare. Anzi. Quella del Sud d’Italia, da parte dei Piemontesi, è stata una “conquista”, come ha giustamente scritto Carlo Alianello.

Nel corso degli anni successivi all’Unificazione la situazione è peggiorata. I protagonisti dei ‘Fasci siciliani’ hanno cercato di cambiare il corso di una storia amara. Tentativo fallito anche per le contraddizioni insite nello stesso movimento, come non mancò di sottolineare Luigi Pirandello nel bellissimo romanzo ‘I vecchi e i giovani’. La repressone dei ‘Fasci’ da opera dell’allora capo del governo italiano, Francesco Crispi – forse uno dei primi, grandi ‘ascari’ – fece il resto.

Dell’atteggiamento di Giovanni Giolitti verso il Sud non c’è bisogno di dire niente: ha già detto tutto Gaetano Salvemini in un libro che tutti i meridionali del nostro Paese dovrebbero leggere: “Il ministro della malavita”. Diciamo solo che, al cospetto dei ‘sistemi elettorali’ utilizzati da Giolitti nel Sud, i protagonisti delle primarie del centrosinistra di Palermo del 4 marzo scorso sono dei ‘novizi’.

Il fascismo non ha migliorato le condizioni della Sicilia. La legge sulla colonizzazione del latifondo siciliano il ‘regime’ la mise in moto proprio nell’anno in cui il nostro Paese entrava in guerra. Era evidente che si trattava di una mezza sceneggiata. Nei venti anni precedenti, in materia di agricoltura, a parte il prosciugamento di alcune aree paludose (interventi peraltro sbagliati), non era stato fatto assolutamente nulla.

Un ‘merito’ comunque, al fascismo va riconosciuto: quello di avere avviato – con il Prefetto Cesare Mori – un notevole ‘sfoltimento’ dei rami bassi della criminalità mafiosa. Costringendo molti mafiosi ad emigrare negli Stati Uniti. ‘Selezionando’, così, una borghesia mafiosa che sarà fortissima e radicata già nel 1943: una borghesia mafiosa che prima proverà a ‘colonizzare’ – riuscendoci solo in parte – il Movimento separatista della Sicilia. Per poi confluire, armi e bagagli, in quasi tutto il sistema dei partiti dell’Italia repubblicana.

I ‘nostalgici’ del fascismo hanno sempre negato le collusioni del regime con la mafia. Gli fa comodo crederlo. Ma negano l’evidenza. Perché quando il Prefetto Mori cominciò a ‘toccare’ alcuni personaggi altolocati della Sicilia – a cominciare da Palermo – Musolini non trovò di meglio che trasferire Mori. Anche allora, checché ne dicano i nostalgici, in Sicilia, la borghesia mafiosa era lo Stato.

Questa veloce premessa ci serve per dire che, subito dopo la seconda guerra mondiale, quando, per fermare l’onda separatista – che dal 1944 al 1946 in Sicilia coinvolgeva una moltitudine di gente – venne istituita la Consulta regionale per scrivere lo Statuto autonomistico della nostra Isola, le attese erano tante. E quasi tutte sincere.

Noi non ci associamo a quanti, oggi, esprimono un giudizio completamente negativo dell’Autonomia siciliana. In sessantasei anni ci sono state ombre e luci: ombre e luci che hanno accompagnato la vita dell’Autonomia dagli albori fino ai nostri giorni.

Se Enrico La Loggia aveva le proprie ragioni nel propugnare la tesi ‘riparazionista – condensata nell’articolo 38 del nostro Statuto – dove si chiama lo Stato italiano a ‘riparare’ i danni prodotti alla Sicilia dal 1860 in poi, sono altrettanto giuste – e per certi versi più lucide – le tesi del filosofo Mario Mineo, figura brillante del socialismo siciliano del ‘900. Esiste una bellissima lettera che Mineo, se non ricordiamo male nel 1966, scrisse allo storico Massimo Ganci.

Mineo era stato invitato e rievocare i primi vent’anni di Autonomia siciliana. Non volle andare. Aveva capito, più di altri, quello che era successo nel primo ventennio di vita autonomistica. E, forse, intuiva, quello che sarebbe successo negli anni successivi.

Si limitò, per l’appunto, a scrivere una lettera. Il ‘succo’ del suo ragionamento dovrebbe essere il seguente. I primi vent’anni di Autonomia siciliana, più che occuparsi dello sviluppo della Sicilia, avevano finito per essere funzionali allo sviluppo del cosiddetto ‘Triangolo industriale’ (Milano-Torino-Genova). Grazie al sottosviluppo premeditato e organizzato del Sud d’Italia – Sicilia compresa, quindi – il Nord aveva potuto utilizzare manodopera a basso costo. Un fiume di contadini, dal Mezzogiorno, si era riversato nelle città del Nord, trovando lavoro in un apparato industriale in piena espansione. Questa gran massa di lavoratori era stata, così, sindacalizzata – e quindi ‘regimentata’ – nella Cgil.

Un sistema ‘perfetto’. Un’impostazione dell’Autonomia siciliana che Mineo contestava alla radice. Il ‘riparazionismo’ di Errico La Loggia era stato pure funzionale a questo disegno? Il giudizio sarebbe ingeneroso. Come sarebbe altrettanto ingeneroso negare che, in Sicilia, il tentativo di frenare la crisi dell’agricoltura e la migrazione di ingenti masse contadine verso il Nord è stato messo in atto. Nel 1950 – con dodici anni di anticipo sul resto dell’Italia – la Sicilia vara la riforma agraria. La chiede la sinistra. Anche se, a Sala d’Ercole, il vero protagonista di questa legge è il democristiano Silvio Milazzo.

Alcuni dicono che questa legge che spezzava – almeno in parte – i grandi latifondi e distribuiva le terre ai contadini era sbagliata perché, in molti casi, agli stessi contadini venivano assegnate ‘pietraie’. Con il risultato che, qualche anno dopo, gli stessi contadini ai quali erano state assegnate le terre, erano a Torino a lavorare alla Fiat. Anche questa tesi è vera solo in parte. Forse è più corretto dire che la legge venne applicata male.

In ogni caso, i primi anni dell’Autonomia sono stati importanti. Giuseppe Alessi – primo presidente della Regione -è stato un grande uomo politico e un grande e sincero autonomista. L’unico a dimettersi dopo la nefasta e abusiva sentenza della Corte Costituzionale che, alla fine degli anni ‘50, assorbiva le competenze dell’Alta Corte.

Piaccia o no a una certa sinistra, il democristiano Franco Restivo è stato un grande presidente della Regione. Lo stesso deve dirsi di Giuseppe La Loggia – figlio di Errico La Loggia – che nella Dc era finito quasi per necessità. Negli anni ‘50 e negli anni ‘60, pur se fra errori di vario genere,l’Autonomia ha svolto un ruolo importante.

Anche l’esperienza della Sofis non è tutta da buttare via. Oggi ricordiamo questa società come la prima finanziaria pubblica. In realtà, nell’idea di chi la pensò, la Sofis avrebbe dovuto essere anche una banca di affari. Avrebbe dovuto sostenere gli imprenditori siciliani entrando in società con loro.

Il racconto di questa confusa fase della storia dell’Autonomia, ancora oggi, è troppo condizionata dal cosidetto ‘milazzismo’. O meglio, dai fautori dei governi ‘ribelli’ retti da Silvio Milazzo. Ci hanno detto e ridetto che c’erano gli industriali del Nord che volevano ‘colonizzare’ la Sicilia. Un disegno egemonico, a cui si sarebbe prestato Giuseppe La Loggia, allora presidente della Regione (si era nel 1958). E a cui si opposero Domenico La Cavera, Milazzo e il Pci siciliano di Emanuele Macaluso.

E’ arrivato il momento di dire che questa ricostruzione semplicistica non regge più. Non soltanto perché non ‘funziona’, ma per gli effetti minimi sortiti dall’industrialismo ‘autarchico’ sognato da La Cavera che – non certo per demeriti di La Cavera – si rivelerà un mezzo fallimento.

La verità è che, nella sinistra siciliana, il dibattito è sempre stato scarno. Il decisionismo ha sempre prevalso sul ragionamento. Una sinistra siciliana prima ‘vittima’ delle tesi di Ruggiero Grieco sulla mafia; poi ‘vittima’ delle tesi di Emanuele Macaluso sugli anni della Sofis. Dimenticando, ad esempio, che Pio La Torre, nei primi annni ‘60, nutriva forti dubbi – e non aveva torto – sull’industrialismo di La Cavera e compagni (è il caso di dirlo, visto che, in parte, erano suoi compagni di partito). Che, infatti, si risolse in un grande fallimento (“Gli industriali del ficodindia”, li chiamavano allora, non senza una punta di sarcasmo).

Gli anni ‘60 sono contrassegnati dalla figura di Giuseppe D’Angelo. Democristiano atipico, nemico di mafiosi e prepotenti. ‘Punito’ dagli esattori siciliani Nino e Ignazio Salvo ai quali aveva provato, senza riuscirci, a togliere le esattorie (che i Salvo invece mantennero grazie alla connivenza di tutti i partiti, Dc e Pci in testa).

Negli anni ‘70 la figura di spicco è quella di Piersanti Mattarella. Un tentativo, il suo, di modernizzare la Sicilia facendo fuori mafia e mentalita mafiosa. Tra i primi a capire l’importanza di una burocrazia ‘trasparente’ e agile. Il primo a spiegare ai siciliani che per chiedere i nostri diritti a Roma bisogna avere “le carte in regola” in Sicilia.

Si sa poco sulla storia subito successiva all’omicidio del compianto Piersanti Mattarella. Chi scrive conserva una testimonianza orale: è quella di mio padre, allora funzionario della presidenza della Regione che, in quei giorni, tornando a casa, ripeteva: “Nessuno vuole fare il presidente della Regione. Hanno una paura matta”. Si riferiva ai democristiani dell’epoca. Forse perché della morte di Mattarella non avevano capito niente. O forse perché temevano un certo Vito Ciancimino. Vattelappesca.

Quando l’Assemblea regionale ‘incoronò’ Mario D’Aquisto chiesi ‘lumi’ a mio padre. Ricordo la sua risposta telegrafica: “E’ un uomo coraggioso”.

Gli annni ‘80 sono un gran casino. I primi cinque anni registrano una ‘moria’ di presidenti della Regione. Quasi che la guerra d mafia di quegli anni andasse di pari passo con gli equilibri precari della politica.

Poi la figura di Rino Nicolosi. Democristiano moderno e dinamico. Grande presidente della Regione. Lo accusavano di gestire un ‘governo parallelo’. Era vero solo in parte. In realtà, provava a sfuggire al consociativismo tra Dc e Pci, che andava in scena in Aula e, soprattutto, fuori da Sala d’Ercole. Anni di tangenti. Ma anche di grandi progetti strategici.

Erano altri anni. E c’erano tanti soldi. Fondi regionali, fondi nazionali e i primi fondi europei (che già allora la Sicilia ignorava, a parte Nicolosi che, invece, provava a fatica a utilizzarli). C’erano tante di quelle risorse finanziarie che la Sicilia, allora, cominciò a non chiedere più allo Stato le risorse dell’articolo 38. Altri tempi.

Gli anni ‘90 sono anni di crisi. Poche idee e molta politica politicante. Poche luci. Il 1996 con l’elezione di Giuseppe Provenzano. Tante polemiche sulle sue presunte collusioni. Alla fine, per paradosso, viene travolto dai comitati di affari. Con il suo partito – Forza Italia – che non muove un dito per salvare il suo governo.

Il 2000. Gli anni dell’elezione diretta el presidente della Regione. la lunga stagione di Totò Cuffaro, tra ombre e luci. Poi Raffaele Lombardo. I giorni nostri. Con una Regione ormai in dissesto finanziario non dichiarato. Un disastro totale. Con una Sicilia che, dopo sessantasei anni di Autonomia, ‘scopre’ di avere ancora un’economia che dipende quasi esclusivamente dalla spesa pubblica, ormai insufficiente per pagare dipendenti, precari, forestali, tabelle H, finti industriali e via continuando.

Ha senso, oggi, parlare ancora di Autonomia? Che spazi riserva l’Unione Europea all’Autonomia siciliana? Proprio oggi, nel nostro giornale, riportiamo un dossier sulla pesca siciliana. Con il governo regionale che, invece di sostenere il settore, con i soldi dei pescatori sostiene se stesso con convegni, seminari, studi e clientele varie. Viene da piangere.

Tutto questo mentre Bruxelles, proprio nei giorni scorsi, ha varato un nuovo regolamento del settore pesca. Tra le lamentele dei pescatori siciliani. Per i quali, come se non bastasse l’attuale crisi, arrivano nuove penalizzazioni.

Ebbene, se andate a informarvi, accerterete che le nuove ‘regole’ sulla pesca, dalle nostre parti, forse le avranno lette sulla Gazzetta Ufficiale. Forse. Di certo nessuno, delle nostre parti, quando a Bruxelles si discutevano i nuovi provvedimenti sulla pesca, si è presentato al cospetto degli euroburocrati a rappresentare le ragioni della Sicilia. Anche perché non c’è nemmeno un dirigente generale del dipartimento regionale della Pesca. Perché l’assenza del dirigente generale giustifica sei o sette consulenti. Ben pagati. Un voto contro sei sette voti. Non c’è paragone.

E gli uffici della Regione a Bruxelles? Servono per sistemare amici e figli o figlie di dirigenti generali. Questa è la Regione siciliana di oggi.

E nel futuro? Non abbiamo la sfera di cristallo. Ma non è vero che l’Unione Europea penalizza le Regioni. Al contrario, prova a valorizzarle. Noi siciliani – oltre ai fondi tematici, che non sappiamo nemmeno cosa sono – abbiamo i fondi strutturali, perché samo una regione ad Obiettivo convergenza. Cioè con un redito pro capite inferiore alla media europea.

Ci vogliono aiutare. Ma non non sappiamo cogliere i loro aiuti. Non riusciamo a spendere i fondi europei. E qui pochi che spendiamo, li utilizziamo nel peggiore dei modi possibili, disperdendoli in mille rivoli.

Una follia? No. Un scelta politica lucida. Quella di tenere i siciliani nel bisogno. E di controllarli con le clientele. Trasformando i diritti in favori. Questa è la Sicilia di Raffaele Lombardo, di Antonello Cracolici e di Giuseppe Lumia. Fino a quando non li manderemo a casa ci sarà poco da fare.

Giulio Ambrosetti

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