«L’idea di avere successo è strettamente collegata alla voglia che si ha di raccontare le cose, perché è normale che si voglia arrivare a quanta più gente possibile», risponde così Francesco De Gregori alla domanda su cosa lo abbia spinto a diventare un cantante, se la voglia di successo o quella di comunicare qualcosa, che il vice direttore del Corriere della Sera, Pierluigi Battista, gli ha rivolto all’inizio dell’incontro che si è svolto martedì al Monastero dei Benedettini, all’interno del ciclo di appuntamenti LibrinScena organizzati dal teatro Stabile di Catania in collaborazione con l’Università etnea.
In un Auditorium stracolmo di ammiratori, tra cui tantissimi giovani, a testimonianza del fatto che la musica del cantautore romano si rivolge a un pubblico senza limiti anagrafici, De Gregori ha parlato delle origini della sua carriera rivelando il suo sogno di bambino. «Quando da piccolo – racconta – vedevo il palco del cinema dove spesso andavo con i miei genitori, sognavo tutte le volte di salirci». Spiega inoltre di aver avuto come modello, con sorpresa dei presenti, Gianni Morandi: «Ho imparato dalle cose che ho ascoltato. Ho avuto tanti modelli, come Morandi, per esempio. È di una bravura straordinaria e poi aveva grande popolarità perché stava completamente dentro la storia del nostro paese».
Partendo dagli esordi, si è arrivati alle riflessioni sulla musica degli anni settanta e ottanta: «Il mio modo di cantare apparteneva a una terza via: non a quella della canzone romantica alla Zanicchi o alla Morandi, né a quella della canzone dell’impegno sociale. Anche se un giorno dissi a Ivan Della Mea, un grande scrittore di canzoni di lotta e di canzoni in generale, che in fondo io e lui stavamo sulla stessa barca perché facevamo canzoni “fuori” Sanremo. Lui mi rispose un po’ infastidito che non era affatto vero. Poi, anni dopo, lo rincontrai e mi disse che avevo ragione».
Non poteva mancare, all’interno della discussione sul panorama attuale della musica in Italia, un commento su Sanremo, che per il cantante presenta solo una parte della canzone italiana trascurando quella d’autore, e sul talent show X-Factor, in cui è stato ospite, al quale De Gregori fa riferimento dichiarando la sua simpatia per i partecipanti al programma, dei quali non giudica negativa la voglia di successo fine a se stessa: «Mercato e successo non sono strade demoniache, conta come ci cammini sopra».
È scattata qualche risata quando Battista, nel sottolineare la differenza tra i suoi punti di forza, basati sul contenuto dei suoi testi, e quelli dei giovani protagonisti dei talent show, ha commentato che questi hanno la bella voce che lui non ha, e quando, sempre parlando di successo, De Gregori ha ricordato l’imitazione che di lui fa Fiorello nei “canti degregoriani”: «Essere imitati è una consacrazione della popolarità, però preferisco che vengano imitati gli altri. Provo sempre un minimo di fastidio, anche se Fiorello mi piace molto. perché è umile e rispettoso e non ridicolizza come fanno altri, di cui però non vi dirò i nomi».
Alla domanda del giornalista che gli chiede se dopo aver scritto “La donna cannone” fosse già consapevole di aver creato un classico della canzone italiana considerato poesia, De Gregori risponde che aveva capito che era commovente e che ancora oggi quando la canta c’è un passaggio che lo emoziona sempre, ma «la canzone d’autore – precisa – non è poesia, semmai è poetica: è la musica che crea quel legame strano con le parole che dà vita alla canzone che non ha debiti verso nessun altra forma d’arte». E solo a un artista del suo spessore si può perdonare l’essersi rifiutato di intonare il passaggio della canzone che ancora lo commuove.
Forse ha voluto evitare una reazione scontata dell’uditorio: «Dopo anni che suoni una canzone e fai concerti, alcune reazioni del pubblico diventano prevedibili. Quando la sensazione che mi dà questa prevedibilità comincia a darmi fastidio, per un periodo congelo la canzone che la provoca».
Oltre che a “La donna cannone”, si è fatto riferimento a “Viva l’Italia”, che raccoglie sempre grandi applausi ai concerti, mentre quando uscì fu negativamente percepita come una canzone di destra e in seguito fu usata anche da alcuni gruppi politici, con disappunto dell’autore: «I politici prendono le canzoni e pensano che sia un modo per avere consenso, ma non è vero. Non mi fa piacere quando le mie canzoni vengono connotate, anche se ho capito che il loro destino è quello di essere usate: appartengono non solo a chi le scrive ma anche a chi le applaude». E ancora, rispondendo all’accusa di revisionismo mossagli a causa della canzone “Il cuoco di Salò”, De Gregori afferma: «Mi scoccia molto spiegare le canzoni, le canzoni vanno scritte, cantate, ascoltate e mai spiegate».
Battista, nella sua intervista, è sembrato poco spontaneo, si ha avuto la sensazione troppo netta che nessuna delle domande sia nata sul momento e non si è lasciato spazio per quelle del pubblico, ma forse c’era da aspettarselo, visto che il giornalista aveva aperto l’incontro accennando ad una, solo alla fine pienamente compresa, metafora sul fatto che l’incontro fosse stato concepito dagli organizzatori come una pizza margherita e si augurava, quindi, che non ne venisse fuori una carbonara.
Prima della conclusione la parola è passata al direttore artistico dello Stabile, Pietrangelo Buttafuoco, che ha chiesto a De Gregori quale tra le sue canzoni e quale messaggio siano destinati a superare lo scoglio delle generazioni. «Io spero – ha risposto il cantautore – che la canzone destinata a durare sia Viva l’Italia. Le donne cannoni non si incontrano spesso, in Italia invece ci viviamo tutti i giorni. Riguardo al messaggio è più difficile rispondere, ma quello che voglio fare adesso davanti a questa bellissima platea è affermare l’autonomia della mia arte, dell’arte canzone».
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