«Fammillu cuntentu u picciriddu». Come? «U serie quattro… u cabrio Rocco». A parlare, senza sapere di essere ascoltato dagli investigatori è Attilio Bellia. Cantante neomelodico considerato uno degli esponenti di spicco del clan Cappello. Dall’altro lato della cornetta Rocco Luca. L’imprenditore che insieme al padre Salvatore e allo zio Francesco ha fatto della concessionaria Lucauto di Gela un marchio famoso in tutta la Sicilia per la rivendita di automobili di lusso. Una scalata resa possibile, almeno secondo la procura di Caltanissetta, grazie ai soldi del clan Rinzivillo. «Contiguità mafiosa», l’hanno definita i magistrati, facendo scattare l’operazione Camaleonte che a inizio luglio ha portato dietro le sbarre gli imprenditori, accusati di concorso esterno in associazione mafiosa e riciclaggio. La loro vicenda giudiziaria passa però anche per la scarcerazione, disposta nei giorni scorsi grazie all’annullamento dell’ordinanza di custodia cautelare.
Negli atti dell’inchiesta nissena uno dei capitoli è dedicato proprio ai rapporti sull’asse Catania-Gela. Non solo la famiglia di Cosa nostra dei Santapaola-Ercolano. Ai Luca si sarebbero rivolti anche alcuni gruppi orbitanti tra la cosca dei Carcagnusi di Santo Mazzei e quella dei Cappello-Carateddi. A quest’ultimo gruppo dal 2007, dopo dei trascorsi nei Santapaola, apparterrebbe Attilio Bellia, non indagato a Caltanissetta ma il cui nome compare in decine di intercettazioni telefoniche. Uno dei tanti passaggi che evidenzierebbero la «sistematica disponibilità» dei Luca a fornire agli esponenti mafiosi auto di grossa cilindrata «che però non venivano intestate al reale utilizzatore al fine di tenere celati gli investimenti di denaro illecito». Tra gli imprenditori Luca e i boss catanesi ci sarebbe stato un rapporto «paritario».
Gli affari con Bellia non sarebbero andati sempre lisci, toccando momenti di alta tensione in cui, a fare da mediatore, si sarebbe messo pure uno zio. Come avvenuto nel 2014, quando Rocco Luca decide di non vendere una macchina prendendo in permuta una Mini Cooper. «Finisci di vendere macchine a Catania», lo avrebbe minacciato Bellia al telefono. Poco dopo la chiamata del parente e lo sfogo del padre dell’imprenditore gelese: «A mia tutta Catania mi deve rispettare […] ca fazzu girari tutta a mafia di Catania. Cià vinnutu i machini a tutti i mafiusi e voglio che mi rispettate perché vado a denunciare tutti», spiegava al telefono parlando con lo zio di Bellia, arrivato in soccorso del nipote. Dall’altro lato il figlio Rocco si sarebbe mosso con i suoi contatti tra le forze dell’ordine. In particolare avrebbe raccontato dell’affare sfumato con Bellia, e delle minacce ricevute, al poliziotto Giovanni Giudice, indagato in quest’inchiesta per accesso abusivo al sistema informatico delle forze dell’ordine. «Ho avuto una minaccia da due dei carateddi – spiegava Luca al telefono – due delinquenti di Catania. Ora chiamo ad Arrogante e mi sta mandando a due». Ma chi è Giovanni Arrogante? Anche in questo caso si tratta di un poliziotto. Un passato nella Squadra mobile e un presente da indagato per i suoi presunti rapporti con la famiglia di imprenditori gelesi.
Passati i venti di tempesta tra Luca e Bellia si ricominciava a parlare di affari. E in particolare di una Bmw che il presunto boss etneo desiderava regalare al figlio. «Mandamelo e gli faccio un preventivo», trascrivono gli inquirenti. Bellia intanto cercava rassicurazioni: «Rocco mi raccomando non faciti scinniri senza macchina. Fallu contento ah». La vendita però sarebbe andata a rilento anche per alcuni problemi dovuti alle ispezioni della guardia di finanza alla Lucauto. Bellia però non stava nella pelle: «Il bambino domani vuole la macchina. Se non puoi per la Bmw facci l’Audi anche se a me non piace», scriveva via sms. Nei documenti, tuttavia, non è specificato l’esito finale della trattativa.
Bellia non è certo uno sconosciuto alle cronache. Alla poco brillante carriera da neomelodico – ha iniziato nel 2013 duettando anche con Daniele De Martino – ha affiancato tanti problemi con la giustizia. Finendo insieme al fratello Gaetano tra gli arrestati dell’operazione Revenge V. Accusati insieme di essere i responsabili per il clan Cappello di alcune piazze di spaccio tra Monte Po e Nesima. Anche in quel caso di mezzo finirono tanti soldi, come i 200mila euro che i fratelli avrebbero dovuto restituire al padre del capomafia Sebastiano Lo Giudice, e una Maserati ritenuta un investimento sbagliato. «Glielo avevo detto che non doveva prenderla», raccontava Gaetano Bellia in un’intercettazione. Quest’ultimo nel 2016 è stato coinvolto, insieme alla madre Concetta Salici e allo zio Giovanni Salici, in una inchiesta su un presunto giro di usura ed estorsioni. Anche in quel caso, secondo la procura, i soldi investiti sarebbero arrivati dalla famiglia mafiosa dei Lo Giudice.
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