Lampedusa, il riconoscimento delle vittime «Io, eritreo-catanese, a fianco dei parenti»

I 360 morti della strage di Lampedusa del 3 ottobre sono diventati numeri. Ad ognuno è associato un cimitero, un loculo. Alla questura di Agrigento il dramma continua con il pietoso rito del riconoscimento delle vittime. Su un computer le foto dei volti, straziati dal mare; su un altro, le immagini degli oggetti ripescati dall’acqua. Ad assistere i parenti sono arrivati i giovani della Comunità eritrea da tutta Europa. Un passaparola che ha portato nella città dei templi anche Alex Beraki, nato e cresciuto a Catania, italo-eritreo di seconda generazione. «La situazione era ingestibile – racconta – gli interpreti scelti dalla questura non avevano dimestichezza, né un minimo di empatia.  Una mia amica della comunità che era già lì mi ha chiesto aiuto e sono andato».

I parenti, circa 130 tra venerdì e lunedì, sono giunti in Sicilia da ogni angolo d’Europa: Svizzera, Olanda, Inghilterra, Germania e Svezia. Per mettere fine, in un modo o nell’altro, all’ansia che li accompagna da quando hanno ricevuto la telefonata che annunciava l’inizio della traversata. «Generalmente quando stanno per imbarcarsi, i migranti avvisano con una chiamata, a cui possono seguire molti giorni di silenzio», spiega Alex. Genitori, fratelli, cugini, zii sono riuniti nella sala d’attesa della questura. «A gruppetti di due o tre li abbiamo fatti avvicinare ai computer – racconta il giovane eritreo – io gestivo le foto dei corpi; Eden, un’altra volontaria della comunità, non riuscendo a guardare quelle immagini, si occupava degli oggetti. Confrontavamo le foto in possesso dei parenti con quelle della questura, ma alcuni volti erano irriconoscibili, tumefatti e gonfi, avevano perso la loro fisionomia e il riconoscimento non è stato possibile. Dopo qualche ora sono dovuto uscire per prendere aria, non potrò mai dimenticare il pianto e le urla strazianti di una donna che che ha riconosciuto il proprio figlio».

Molti tuttavia sono stati i casi in cui l’esito del confronto è stato negativo. L’ultima possibilità resta l’esame del Dna, ma serve un legame di parentela diretto – tra padre e figlio, o tra sorelle ad esempio – e dello stesso sesso. Combinazione spesso impossibile, così i numeri rimangono senza un nome. E le ansie di chi resta in vita mai del tutto sopite.

I giovani della comunità eritrea provano a sopperire alle inefficienze della macchina burocratica. «Mancano ancora troppe foto, rimaste a Lampedusa o a Malta per problemi tecnici – spiega Alex – c’è molta disorganizzazione, non ci sono interpreti preparati. Tra i parenti c’era anche un uomo tunisino che parlava francese, ma nessun mediatore in grado di comunicare con lui. Alla fine ha parlato con una ragazza eritrea che vive in Svezia, lei ha tradotto a me in inglese e io ho girato le informazioni in italiano all’ispettore di polizia. Servirebbe un albo dei mediatori culturali, pronti e preparati per questi eventi». Per chi è riuscito ad individuare un volto amato, il viaggio è proseguito verso il cimitero in cui era stato seppellito. «Un iter che mi ha fatto rabbirividire: ad ogni foto un numero, ad ogni numero un loculo. E i parenti più fortunati concludevano il giro tra questi computer con un indirizzo di qualche sperduto paese della Sicilia: Castrofilippo, Alessendria della Rocca, Sciacca, Menfi, Bivona, Cianciana, Montevago, Sambuca di Sicilia, Santo Stefano Quisquina. Li abbiamo mandati in taxi o accompagnati alla fermata degli autobus».

Il triste pellegrinaggio non è ancora finito. «Tanti corpi non hanno un nome, mentre alcuni sono tuttora dispersi in mare – conclude Alex – io non riuscirò mai a cancellare quelle immagini impresse nella mente e l’angoscia che ti rimane attaccata sulla pelle».

Salvo Catalano

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