L’Aldilà? È come la patente a punti

“Io non ci sto, questa è l’ultima volta”. È con queste parole che Romano Bernardi, attore protagonista di “L’uomo che incontrò se stesso” introduce la storia del suo personaggio, deceduto il 24 agosto di chissà quale anno in un incidente automobilistico. Conseguenza della sua morte è anche il suo aspetto sfigurato, anche se l’interprete continua a dare la colpa “ai macellai” del Purgatorio. In questo scenario bianco e fulgido, dal richiamo etereo, il defunto Michele ci rivela anche il funzionamento dell’aldilà, che paragona un po’ alla moderna patente a punti: più infrazioni (peccati) sono state commesse sulla strada (Terra), più punti (privilegi) verranno detratti dal proprio computo, fino al definitivo ritiro della patente (possibilità di albergare in paradiso).
 
Così mentre il protagonista narra la sua vita, come in un film si vedono scorrere alle sue spalle dei flashback di momenti significativi di essa: il giorno del funerale della moglie Gigliola (Valentina Ferrante), morta a trent’anni in circostanze scopertesi solo in seguito (a causa di un’esalazione di gas nella casa dell’amante); o le continue illazioni della suocera (Alessandra Palladino) che non ha mai creduto nelle facoltà del genero, che ritiene un modesto insegnante di filosofia senza ambizioni (un giorno invece diverrà un capitalista, proprietario di una grande catena di alberghi); o ancora le numerose fughe d’amore della sua compagna con il migliore amico Lamberto (Alessandro Ferrari).
 
Eppure l’anima di Michele non è invisibile. Anzi scopre presto la possibilità di interagire con i fantasmi del suo passato. Ne nasce una serie di equivoci ironici, come quando Michele tenta di dare al destino un’altra piega, cercando di rimediare agli errori commessi dagli altri, che comunque lui decide di redimere. Ma niente cambierà il corso degli eventi e Michele Furnari resterà, come si era descritto sin dall’inizio, l’uomo delle 3 C: cornuto, contento e coglione.
 
È questo il contesto che Antonello Luigi (autore originario del testo del 1918) ed in seguito Luigi Lunari hanno scvelto per insinuare nella mente del protagonista, e di conseguenza dello spettatore, una serie di interrogativi sulla vita: il vero significato dell’amicizia, la priorità dei valori, l’importanza della ricchezza e della carriera, la solitudine, l’impotenza di fronte al destino. Singolare in questo scenario è l’incontro-scontro del personaggio principale, deceduto, con il suo io giovane (Massimo Leggio), dalla mentalità distante anni luce. Da qui il titolo originario dell’opera (mentre Lunari, per ovviare alle accuse di plagio rivoltegli dagli eredi del primo autore, avrebbe scelto “Incontro ravvicinato di tipo estremo”).
 
L’opera risulta ottima per la semplicità dell’impianto, la consistenza e bravura del cast de “La compagnia delle isole” e la singolare interpretazione di Romano Bernardi, che sceglie questo personaggio per calcare le scene per un’ultima volta, chiudendo in bellezza la sua lunga carriera teatrale. A coordinare tutti è la valida regia di Antonello Capodici. Anche luci e musiche contribuiscono a rendere l’effetto onirico della commedia: le prime curate da Gaetano La Mela, fedele compagno di Turi Ferro, le seconde realizzate ad hoc, su toni jazzistici, da Matteo Musumeci.
 
Affascinanti sono infine la struttura ciclica e la sorprendente conclusione, che avvolgono il pubblico in un alone di paradosso e malinconia. 

Benedetta Motta

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