La Sicilia dalla rivolta alla rivoluzione

“E’ una rivolta ?” – No, maestà, stavolta è una rivoluzione”

 

(dal dialogo tra Luigi XVI e un suo consigliere

nel giorno della Presa della Bastiglia il 14 luglio 1789)

 

A distanza di 15 anni mi trovo ancora una volta al servizio della mia Città, declinando sul versante istituzionale un impegno che sul fronte dello sviluppo e del supporto alle nuove classi dirigenti non è mai mancato in svariati settori. Ancora una volta, entro a far parte di una maggioranza che sostiene Leoluca Orlando. Ieri la Rete, oggi Italia dei Valori in cui sono presenti molti dei contenuti ispiratori di quella esperienza che fu unica, per genesi e per affermazione, per Palermo e per la Sicilia.

Piazza Pretoria - Foto Giovanna Biondo

Questa evoluzione coerente rispetto all’orizzonte di ciò in cui credo, mi rassicura e mi conforta. La situazione socio economica di Palermo non è mutata. Si è anzi aggravata nel corso di un decennio tra i più bui della sua storia recente. Oggi, come e più del 1993, ci sono macerie da rimuovere, equilibri clientelari e connivenze mafiose da individuare e bloccare attraverso un’azione amministrativa di ampio respiro progettuale impegnata prima di tutto a restituire dignità a quanti sono stati resi schiavi dalla mala politica.

Nel ‘93 Berlusconi ancora non c’erà, ma si manifestò l’anno successivo, bloccando sul nascere il rinnovamento e ricompattando antichi assetti di potere. Oggi Berlusconi sembra non esserci più, ma è pronto a sfruttare il sentimento di insicurezza degli italiani per riproporsi come “uomo della Provvidenza”. E sono in molti, soprattutto in Sicilia, pronti a seguirlo. Nel ‘93 la Regione siciliana era ancora retta da presidenti eletti dall’Assemblea. La nuova legge avrebbe prodotto poi ben due Presidenti, scelti direttamente dai siciliani, uno dei quali è oggi in carcere e l’altro rischia seriamente una vicenda giudiziaria che potrebbe avere lo stesso epilogo.

Resta allora da chiedersi: ma i siciliani vogliono veramente cambiare? Hanno veramente compreso che il proprio destino è ormai esclusivamente funzione delle persone che vengono scelte per guidare i processi di sviluppo locale? Sono disposti a rinunciare ad una immediata ed effimera “soluzione” dei propri problemi individuali in cambio di un rinnovamento che affronti i problemi collettivi? Continuano a credere in soluzioni miracolistiche che non giungeranno mai più dal Governo centrale o dall’Unione Europea se non in presenza di progetti seri e credibili garantiti dal livello di onestà, di competenza e di reputazione degli amministratori locali?

Rispetto a queste domande io credo che la risposta più realistica sia “no”. Lo ha dimostrato, anche nella recente competizione per le amministrative, lo straordinario frazionamento politica, la frantumazione del consenso, la corsa a candidare e votare il cugino, il fratello, l’amico, alla ricerca sovente di un riferimento personale dentro istituzioni che vengono ancora percepite come ostili e impenetrabili come castelli.

Siamo ancora lontani dalla capacità di intendere la politica come espressione massima della qualità di quanto di meglio c’è nella società. Ci lasciamo affascinare da movimenti inventati, poco rappresentati, dall’onda del conformismo (anche quello dell’antipolitica può esserlo) e dello sfascimo che, quando vanno a governare (è già accaduto in Italia e in Europa) proprio per la mancanza di una solida formazione dei propri esponenti, rivelano derive rozze, linguaggi, e azioni violente e pericolose per la democrazia.

Nel ‘93 era ancora viva e forte l’emozione di quelle stragi di cui solo ora i più cominciano a comprendere l’ambiguo ruolo dello Stato (ho avuto il privilegio di condividere già in quei giorni i dubbi di oggi con Padre Pintacuda ed altri amici quando di ciò ancora nessun giornalista si occupava). Venti anni dopo, con la crisi che morde, si rischia di abbassare la guardia sul livello istituzionale, sulle menti raffinatissime che ieri come oggi sono sempre state i veri registi, lasciando a coppole e lupare il ruolo di comparse attivate a (tele) comando.

Recentemente Maurizio Ferraris ha ricordato quanto già Thomas Khun affermava circa le vere rivoluzioni. Esse avvengono solo quando si cambiano consapevolmente i “paradigmi” cioè gli assi portanti di un modo di pensare, di essere, di agire. Viceversa, possiamo avere rivolte, cioè moti momentanei spesso utili a cambiare tutto perchè nulla cambi. E’ la storia della Sicilia e, forse, anche dell’Italia.

Quale compito allora per chi oggi, ad ogni livello istituzionale, è chiamato a progettare il futuro? A mio avviso, esso consiste in una sola parola: discontinuità. Rottura cioè di ogni legame con il passato, passaggio dallo stato di minorità a quello di emancipazione, uscita dall’infanzia civile e ingresso nella piena adultità sociale e politica, rinnovamento, sempre costoso e talvolta lacerante, di parole chiare, di azioni chiave, di persone il più possibile “impolitiche” e in grado di permettersi il lusso della libertà di pensiero e di azione. Poiché è dal rischio che nasce il nuovo, è dall’eresia che si rinnova la verità, è dal pensiero critico che si rigenera il diritto di poter pensare ancora, è nel momento del massimo pericolo che nasce la salvezza.

Foto di prima pagina tratta da immagini.n3po.com

 


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