La satira? Amore per i potenti

da www.blumedia.info

Vincenzo Cerami ancora una volta all’università di Catania, un amore che si rinnova?
«Sono già stato due volte in questa meravigliosa università per incontrare i ragazzi, ed è stata una felicità reciproca; speriamo che il libro che ho portato all’incontro piaccia anche a loro, credo si divertiranno molto a leggerlo. Si tratta di un thriller enigmistico, non so quanta enigmistica si faccia qui in Sicilia. Io sono siciliano di origine, ogni volta che vengo qui è una festa: gli odori, le facce, il colore degli occhi, insomma mi sento proprio a casa, sono proprio contento».

Lei tiene da qualche tempo dei corsi di scrittura creativa: come può il linguaggio, e la scrittura in particolare, esprimere la creatività che c’è dentro di noi ?
«La scrittura stessa è un atto creativo. Quando qualcuno scrive è qualcosa di fantastico: se scrive una storia, un racconto, una favola, una poesia, in quel momento lì, lavora con il linguaggio, cerca di far parlare le parole, di dar loro suono e colore. E con la fantasia deve per forza di cose andare oltre il presente e immaginare, fantasticare appunto. Però questo fantasticare rimane uno sforzo vuoto se poi non si concretizza in un testo: la scrittura stessa è la messa in opera della fantasia. Se io voglio comunicare qualcosa a un’altra persona ci sono tanti modi per farlo, ma io posso comunicarla a condizione che riesca a emozionare l’altro».

Ha collaborato con comici fantastici: Totò, Benigni, Albanese. Cosa pensa che sia la comicità?
«Per la comicità dovete pensare a Charlie Chaplin, a Buster Keaton, a Stanlio e Ollio. La comicità è un’arte molto raffinata e anche difficile, perché lavora su personaggi che sono bidimensionali, che non hanno spessore sociologico o ideologico, non hanno un background, sono delle maschere. Hanno bisogni molto elementari: la fame, la voglia di amare e basta, non hanno nessuna nevrosi. Lavorare con questi personaggi è lavorare con l’essenzialità dei bisogni umani, quindi è poesia allo stato puro».

Secondo lei, cosa dovrebbe essere oggetto di satira?
«La satira politica è un genere molto antico, in cui si stabilisce una specie di carnevale, il mondo viene rovesciato, la piramide sociale viene rovesciata, i potenti che ci hanno messo paura fino a quel momento vengono sbeffeggiati, ci ridiamo sopra, cerchiamo di esorcizzare la paura che in realtà loro ci mettono.
Poi, in una seconda analisi più profonda, si potrebbe anche dire che la satira è un modo ruffiano di amare i potenti. Non è vero che la satira è sempre contro i potenti, ma è una figura retorica che dimostra amore per i potenti. Io non sono un grande amante della satira politica, se non in casi molto particolari».

Lei conosceva Pier Paolo Pasolini: è stato suo alunno e si è fatto interprete dei suoi scritti, leggendoli in “reading” pubbliche. A 30 anni dalla sua morte pensa che le sue idee si siano perse?
«Non si è perso nulla. Anzi Pasolini non ha conosciuto un momento di interesse maggiore di adesso, soprattutto presso i giovani, e non soltanto in Italia. Viene tradotto in tutto il mondo e viene letto con grande passione, soprattutto per l’attualità del discorso che portava avanti. E’ stato il testimone del passaggio da una società contadina alla società di massa. E ha descritto passo passo, opera dopo opera, questa trasformazione. Fino a parlare di omologazione. Noi oggi diciamo globalizzazione. Bisogna soltanto riuscire a trovare il modo di vivere in questa realtà completamente diversa da quella che era prima, in cui non ci sono più contatti tra il passato e questo presente».

Dato l’exploit della televisione, a cui solo Internet può tenere testa, pensa che la funzione acculturante ed educativa della letterature e del cinema esista ancora?
«Internet è in competizione con la televisione perché riesce a creare sul web programmi davvero significativi, addirittura anche il cinema può entrare su Internet, si possono scaricare i film.
Per quanto riguarda l’aspetto educativo della letteratura o della televisione direi che nel momento in cui si pone il problema educativo, già si sbaglia. Né l’una né l’altra dovrebbero avere questo compito, che dovrebbe avere la società intera, la famiglia, la scuola. Quindi né la televisione né l’arte. L’arte deve raccontare il mondo in cui viviamo e poi noi dobbiamo giudicare e saperci muovere. La televisione deve essere fatta bene, se è fatta bene è educativa indirettamente, se è fatta male è diseducativa. Quindi il problema è di qualità, non è questione di educazione, o di principi da far passare. Perché i principi non sono mai onesti, non bisogna far passare dei principi, un ideologia o un modello di comportamento, bisogna fare le cose fatte bene, che siano belle, che siano piacevoli e che non siano ruffiane o violente».

Lei in passato ha polemizzato sui reality show e sulla eccessiva “realizzazione” della vita. Le piace la televisione di oggi?
«Chi fa questa televisione è gente cinica, affarista, che pensa a far soldi con la pubblicità, e il tutto a dispetto del buongusto. Quello che deve preoccupare è come mai tanti italiani seguono questa immondizia, che arriva a palate dentro le case. Come mai la gente se la prende tranquillamente, ed è felice di convivere con questa lordura. Io però sono convinto che se invece di fare quelle cose, ne facessero altre, migliori, il pubblico le guarderebbe lo stesso. Quindi tanto vale fare le cose belle, perché non credo che i telespettatori siano scemi; io penso che siano intelligenti».

Cosa ne pensa del modo attuale di fare giornalismo, alla ricerca del senzazionalismo? Non è un giornalismo che può plagiare e camuffare la verità?
«Il giornalismo è nato con un foglio in cui veniva riportato ciò che accadeva nel mondo. Io non so una cosa, leggo il giornale e la so. è questa la sua funzione storica. Dopodiché, in questa epoca dei mercati, consumistica, dove il denaro mangia tutto e conta sopra ogni altra cosa, ecco che il giornale è diventato un prodotto, e non ha più quella funzione lì. Quella funzione fa da “pre-testo” per fare pubblicità, per far vendere più copie possibili. E’ una ricerca continua del trash, del gossip, cercando di toccare le corde un po’ più “infami” del lettore, in modo tale da poter fare notizia e vendere i giornali. Naturalmente è come un cane che si morde la coda, perché più si vanno a cercare quelle cose e più viene fame di quelle cose. E a quel punto valgono più i gossip: Albano in prima pagina, invece di un attentato terroristico: il mercato lì è più ricco. E allora tutto questo ti fa dire: boh, l’informazione non c’entra più nulla, bisogna andarla a cercarla da qualche altra parte.
E credo che Internet in qualche modo stia riempiendo questo vuoto. Ci sono dei siti web che offrono quella che una volta si definiva “controinformazione”, dove si possono trovare dei brandelli di verità. Ma bisogna andarseli a cercare. Perché se cerchi sui giornali o sulle televisioni non li troverai mai».

Giorgio Pennisi

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