La santuzza di Librino

Non c’è la classica inquadratura del Liotru o del Duomo. L’Etna non si intravede mai. La Catania ripresa ne “I baci mai dati” è fatta di palazzi tutti identici, bianchi con strisce gialle, grossi agglomerati urbani intervallati da una chiesetta dalle pareti blu e da una piazza spoglia, con al centro una Madonna nuova di zecca. E proprio dalla statua della Madonna parte l’intreccio del film, presentato in anteprima a Catania dopo la trionfale proiezione alla Mostra del cinema di Venezia. Un film con una strana ottica sulla realtà catanese e sulle figure che la popolano, ma d’altronde c’era da aspettarselo da Roberta Torre, regista di quel “Tano da morire” in cui la Vucciria palermitana si animava a suon di balletti, mentre la criminalità era rappresentata da quattro vecchietti che canticchiavano “Simm’a mafia”.

E proprio questo gusto al limite del kitsch, fatto di colori accesi e saturi, pacchiane acconciature e tanta ironia rende “I baci mai dati” una stramba favola, decisamente a modo suo, che non pretende nessun realismo, anzi si concede di essere totalmente irreale, quasi mistica. La storia di una quattordicenne che sogna la Madonna, e da allora viene scambiata per una Santa capace di fare miracoli, è una fiaba calata a forza in un contesto duro, difficile, ma non per questo perde tutta la sua magia. Lo sguardo divertito ma anche malinconico del popolo librinese dà quel qualcosa in più che rende il film non un “Gomorra”, ma qualcosa di universale, qualcosa che travalica i confini catanesi per parlare ad una popolazione in crisi, che cerca invano un segno divino: chi cerca di entrare al Grande Fratello, chi cerca l’amore, chi cerca disperatamente il lavoro, chi vuole la salute e chi ci specula su per far soldi.

 

Catania come ne esce? Come una qualsiasi città in cui la frustrazione e il degrado si intrecciano con la speranza e la preghiera, senza pesanti eccessi e con un tono ben dosato tra dramma e commedia. Merito anche delle interpretazioni di Donatella Finocchiaro, una caricatura di madre dal look decisamente ‘colorito’, Beppe Fiorello, il padre assente che, per una pecca della sceneggiatura, sparisce per tutta la seconda parte del film, e la debuttante Carla Marchese nel ruolo della figlia, spontanea e incredibilmente magnetica. Sullo sfondo, una Librino che sembra uscita da “Amelié” o da un film di Ozòn, con le finestre accese da un blu elettrico, gli interni di un rosso fuoco e un insieme di macchiette e coprimari che, anche nei loro piccoli grandi drammi, tirano avanti con un sorriso, quel sorriso tipico di una fiaba a lieto fine. Anche se il lieto fine, il miracolo, per loro non arriverà.

 

Roberto Zito

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