La nuova vita del San Domenico di Taormina (senza Bill Gates) «Il turista di lusso vuole scoprire la Sicilia, ma con servizi top»

«Nei giorni scorsi mi ha fermato persino il pollivendolo di Taormina per dirmi “Ma allora arriva Bill Gates?”». È un elegante sorriso la risposta di Lorenzo Maraviglia, direttore dell’hotel San Domenico di Taormina, alla cantonata presa da diversi mezzi di informazione locali e nazionali sul futuro dello storico hotel e di un’altra nota struttura italiana, il Danieli di Venezia. Entrambi dati in procinto di un passaggio di proprietà al magnate americano, provocando un patriottico scandalo anche nel mondo politico. Magnate che in realtà è diventato l’azionista di maggioranza della società Four Seasons che nel mondo gestisce – ma non compra – hotel di lusso. Proprio come il San Domenico di Taormina, già sotto l’egida dell’azienda canadese dalla scorsa estate, grazie a un accordo con la proprietà italiana del gruppo StatutoUna confusione che però ha spinto a ragionare sul settore: con pochissima presenza straniera e dominato da strutture medio-piccole a conduzione familiare. Poco pronte ad accogliere una domanda turistica diversa, quella del lusso. Complice la scarsa attrattività della gran parte delle mete siciliane, compresa Catania, dove pure i turisti più danarosi atterrano per poi fuggire a Taormina.

Direttore, probabilmente alla base della confusione sul ruolo di Bill Gates e di Four Seasons, c’è proprio questo: in Italia non siamo abituati a pensare che qualcuno abbia un hotel e non lo gestisca. Lei come la vede?
«Io credo che ormai sia in atto un processo di globalizzazione che include tutti gli aspetti economici e sociali; tra cui, prima o poi, anche il turismo. In Italia, negli ultimi anni, c’è un fermento particolare, con brand stranieri che sono arrivati anche qui: era necessario e, anzi, è persino strano che non fosse già avvenuto. Perché di sigle italiane, dopo Ciga, non ce ne sono e, in una nazione che ha il turismo come motore primario, era assurdo che a Roma, ad esempio, non ci fossero catene internazionali. Four seasons adesso è a Milano, qui in Sicilia e tra poco in Puglia, a Ostuni, un mercato del tutto nuovo. Parliamo di strutture impossibili da gestire per una singola famiglia italiana, per quanto ricca, perché richiedono investimenti multimilionari, spesso da fondi stranieri. Se ci pensiamo, è un po’ come nel calcio: le società sono ormai quasi tutte estere».

A voler essere pignoli, anche il gruppo Statuto non ha certo comprato il San Domenico con soldi italiani…
«Beh, è come quando si compra casa: si è fatto un finanziamento, ma con società internazionali. Allo stato, il gruppo Statuto è l’unico in Italia che può competere con i gruppi internazionali».

Gruppi che comunque si riferiscono a un pubblico specifico: il turista di lusso, ancora poco conosciuto in Italia. Che esigenze hanno questi visitatori che li rendono così inarrivabili per la maggior parte delle strutture?
«Il settore dell’ospitalità cambia come cambia la moda. E anche il lusso e la sua percezione cambiano con i tempi, così come le richieste. La dolce vita italiana di qualche decennio fa oggi non basta più: viene richiesta connettività, velocità di esecuzione e servizi aggiuntivi che un albergo privato più piccolo ha difficoltà a fornire. Non ci sono ricette precise, ma esistono una serie di standard internazionali, come avere una spa di un certo tipo, di quelle che si potrebbero trovare a Dubai o in Cina. Qui a Taormina, ad esempio, abbiamo 18 piscine private con jacuzzi ed è ciò che il visitatore di quel tipo si aspetta di trovare. La richiesta c’è, il prodotto Italia va bene, ma c’è anche un’offerta da rinnovare».

Nell’immaginario comune un mega-hotel di questo tipo fa rima con ricchissimi americani, giapponesi o russi. Serve quindi una gestione straniera per interpretare i bisogni di danarosi clienti stranieri?
«In realtà, la stupirà, ma quest’anno abbiamo lavorato per l’80 per cento con italiani. Si è rivelata una clientela più fertile di quanto io stesso pensassi: a loro abbiamo venduto allo stesso prezzo pensato per gli americani o i russi, e io sapevo che esistono ricchi turisti italiani, ma non così tanti e non così ricchi. L’unica differenza è solo nel periodo: gli italiani viaggiano da luglio e fino alle prime tre settimane di agosto, poi tornano a lavoro. Altri mercati, invece, cominciano prima e finiscono dopo, per questo speriamo di tornare presto ad accogliere turisti stranieri».

Non ci sono ricette precise per un hotel di lusso e di successo, diceva prima. Quanto pesa in questo l’attrattività di un territorio? Perché Taormina sì e città con molto da offrire, come Catania o Palermo, invece no?
«Potremmo fare tanti esempi: perché Mykonos tira più delle altre isole? Perché Capri e non Ischia? Io sono nato e cresciuto a Montecatini Terme, la classica vecchia gloria degli anni Sessanta in cui tutti andavano e che oggi, purtroppo, è invece appannata. Taormina ha fatto tanto lavoro negli ultimi anni per rilanciare una fama che affonda le radici in tempi in cui né io né lei eravamo nati: è diventata una meta artistica e intellettuale, una Dubai siciliana con scambi meno eticamente controllati in una Sicilia molto conservatrice. Penso ad esempio a Oscar Wilde, a Picasso… In generale, quando una catena internazionale decide di aprire in un territorio è perché ne ha studiato volumi, prezzi e la capacità di avere un sistema di servizi esterni, come il noleggio di auto o yacht. Sotto questo punto di vista, il gruppo Belmond prima di noi ha fatto da apripista al risorgimento di Taormina. Noi proviamo ad aggiungere ancora, portando clientela nuova».

Il timore di alcuni è che aprire al turismo di lusso, ritenuto più superficiale, snaturi le mete stesse. Alcune strutture, come il San Domenico, un ex convento, sono già ricche di storia di per sé. Come si coniuga questa tradizione con l’innovazione chiesta dai visitatori?
«L’autenticità del luogo è in realtà un valore aggiunto. La nostra risposta è stata il restauro di questi tre anni dove ogni singolo pezzo di storia è stato portato all’antico splendore e oggi viene raccontato dai nostri ragazzi. Come in altri hotel, c’è ad esempio un servizio di art concierge che, su richiesta, fa fare il giro di tutto il San Domenico spiegandone la storia come si farebbe in un museo. Anche perché, con 220 pezzi d’arte esposti, per vedere e capire tutto ci vogliono almeno due ore. Poi, per carità, c’è anche la clientela con altre aspettative, che vuole solo andare al mare, ma in questo non vedo alcuno scandalo: se a un turista non importa dei quadri e della vita dei frati domenicani, ma poi fa una passeggiata al corso e spende 20mila euro, per me è il benvenuto».

A proposito di tradizione, che peso ha per questo tipo di turisti il settore eno-gastronomico, altro possibile volano dell’Isola?
«C’è una minoranza che viene appositamente per questo; un’altra tipologia che arriva qui e vuole scoprire la Sicilia, quindi anche sotto questo aspetto; e infine altri ancora che ti chiedono solo l’insalata perché tanto sono a Taormina per fare shopping. Sta a noi leggere i bisogni e anticipare le aspettative. E per questo abbiamo deciso di creare tre ristoranti diversi: uno di pesce nella piscina vista mare, più giovanile; un altro più inclusivo con tipicità siciliane, dalla norma all’arancino, quasi casalingo; e poi lo storico ristorante dello chef Massimo Mantaro, due stelle Michelin fino a due anni fa, che reinterpreta anche la cucina siciliana ma in chiave creativa. Lui, poi, è nato e cresciuto a Taormina, poco distante dall’hotel: diciamo che noi abbiamo lo chef a chilometro zero! In generale, comunque, qui i ristoranti fanno a cazzotti e non è detto che gli ospiti cenino tutte le sere in hotel. Anzi, la nostra speranza è attrarre clienti di altri hotel o visitatori di passaggio, come nella scorsa stagione dove metà commensali pernottavano in hotel e l’altra metà erano esterni che venivano tutte le sere».

In tutti i servizi che mi ha raccontato mi pare che ci sia un filo comune: un personale all’altezza di aspettative nuove. Un passaggio non scontato in un’Isola in cui ancora, troppo spesso, conoscere due o tre lingue straniere viene ritenuto straordinario.
«Qui la scuola alberghiera ha creato tanti talenti e noi ne abbiamo trovati tantissimi, dai paesini vicini o di Taormina, persone già preparate e che magari, complice il Covid, rientravano dall’estero con un bagaglio di esperienze e una capacità linguistica forte. Chiunque viene assunto ha un periodo di training: dalla filosofia aziendale alla revisione dei compiti, dal più semplice al più complesso. In ogni caso, io dico sempre che qui non si mandano missili nello spazio: è un lavoro semplice, ma che va fatto bene. Oltre ai siciliani, c’è poi una piccola quota di dipendenti dal resto d’Italia e dall’estero, ma un buon 75 per cento di impiegati sono italiani ed è una percentuale che, di solito, aumenta nel tempo». 

Per quando è prevista l’apertura della stagione quest’anno?
«Apriremo al pubblico i primi di aprile. Quest’anno, poi, proveremo a tenere aperto fino ai primi di gennaio per vedere se si può allungare la stagione e smarcare Taormina da questa fama di meta estiva. È curioso, tra l’altro, perché fino a 30 anni fa era al contrario: d’estate faceva troppo caldo per gli stranieri, mentre in inverno era perfetta per chi voleva godere del clima mite sciando e guardando il mare. Poi con poche lire si è iniziato ad arrivare alle Maldive ed è cambiato tutto».

Claudia Campese

Giornalista Professionista dal 2011.

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