«Non è un problema che riguarda solo mio figlio, è una questione sociale. Sento di parlare a nome di tutti quelli che vivono situazioni di questo genere. E siamo tanti». Cinzia Pagliara è un’insegnante catanese. Da tempo, «per testardaggine», si è posta un obiettivo: «Far capire che esistiamo anche noi, le famiglie con figli disabili». Il figlio Matteo ha 23 anni, «ma ha lo sviluppo mentale di un bambino di sei. Ha un ritardo mentale di medio-grave grado e un quoziente intellettivo pari a 46. Parla pochissimo, non ha percezione matematica». E, fattore molto allarmante per la sua vita sociale e quella dei suoi cari, «non capisce il senso del pericolo. Non posso lasciarlo da solo. Potrebbe aprire la porta a chiunque, fare del male a se stesso o a qualcun altro». Affetto anche da attacchi di epilessia, è farmaco-resistente.
«Riusciamo a tenere sotto controllo le crisi solo perché è letteralmente bombardato di medicine, che però comportano anche effetti collaterali». Così, assieme agli attacchi durante i quali è fondamentale che abbia assistenza, può capitare che soffra di vertigini e capogiri così forti da farlo cadere. «Fino ai 18 anni non ha avuto bisogno di altri sostegni, bastavano solo i benefici della legge 104», la norma che garantisce determinati diritti ai parenti dei portatori di handicap, e l’invalidità civile con una percentuale riconosciuta dell’80 per cento non sottoposta a revisione. Ma l’Inps di Catania per due volte consecutive gli nega l’accompagnamento.
Tutto inizia quando, una volta finita la scuola, dovendo affrontare i costi di un’assistenza che copra le ore nelle quali è al lavoro, la madre di Matteo presenta istanza per il riconoscimento dell’accompagnamento. Un assegno da poco meno di 500 euro utili a coprire la retta di una ludoteca nella quale il ragazzo fa piccole attività di artigianato tre volte la settimana e le spese per una pedagogista. «Voglio che continui a esercitarsi, che non perda quanto ha appreso con fatica in questi anni», sottolinea Pagliara.
La prima volta il sostegno viene negato e la famiglia di Matteo oppone un ricorso che vince. Ottenuti anche gli arretrati, come per qualsiasi altra patologia, viene disposta una revisione dopo tre anni. «Per Matteo non c’è una guarigione», tiene a precisare Cinzia Pagliara. Così come, sottolinea, non c’è una cura per i pazienti in fila con lui all’Inps di Catania: ragazzi affetti da autismo, giovani con sindrome di down, persone con ritardo mentale. «Obbligarli a tutta la trafila, ogni volta, innanzitutto è una mancanza di rispetto», afferma secca.
«Non chiedo nulla che non mi spetti. Non è un privilegio quello che riceviamo»
«Mi è arrivata la comunicazione della revisione per tempo, così ho fatto le prenotazioni per le visite necessarie». Tutte rigorosamente in strutture pubbliche. E anche questa volta, dopo un doppio colloquio con la madre e uno da solo, la domanda viene respinta. Quello che i medici stilano è «un resoconto di mio figlio che non riconosco». Per rompere il ghiaccio, un medico gli chiede «quali sono i tuoi hobby». Matteo si volta verso sua madre con un’espressione a metà tra il perplesso e l’incredulo. «Gli ho spiegato cosa intendevano e lui ha risposto alla sua maniera». Poi passano alle domande sulla quotidianità: prendere un autobus, fare la spesa, mangiare. Tutte attività che sì Matteo compie, ma solo grazie all’assistenza di qualcuno. «Non so cosa succederebbe se andasse da solo in strada – spiega allarmata la donna – Se andasse al supermercato, saprebbe prendere i cornflakes che gli piacciono, ma non potrebbe riconoscere il resto che gli danno. Prende tranquillamente le sue medicine, ma solo perché gliele prepariamo. E se non ci fosse nessuno a cucinare per lui, morirebbe di fame».
Così, in un quadro nel quale un giovane di 23 anni «non può mangiare, spostarsi, curarsi, la compromissione che gli viene riconosciuta è media». Che equivale al respingimento della richiesta di accompagnamento. «Io non voglio per forza soldi – sbotta Cinzia Pagliara – Voglio assistenza, ma non nei ghetti che dicono loro», afferma riferendosi alle strutture pubbliche. «Non chiedo nulla che non mi spetti. Non è un privilegio quello che riceviamo», rimarca.
Quello che dalla sua vicenda personale ha tratto è che «si parla di disabilità solo nei giorni della maratona di Telethon. Si parla di ricerca, che è giusto e sacrosanto; si fanno dei servizi sui casi più forti, più interessanti. Ma per il resto? La vita vera non viene raccontata mai». Quella che conduce è una battaglia per la quale non vuole riconoscimenti particolari. «Non siamo eroi – commenta amaramente – Qualunque madre farebbe lo stesso». E aggiunge: «Mi sono rotta i coglioni delle mamme coraggio».
La situazione nella quale si trova oggi, secondo Cinzia Pagliara è il risultato di molti fattori: dalla disinformazione sul mondo delle diverse disabilità ai tagli al settore. «Mi devo augurare che i nostri parlamentari abbiano un figlio disabile per far cambiare qualcosa?». Anche se, riflette, «loro troverebbero qualche maniera per ottenere quanto gli spetta». Le stesse vie – «un avvocato amico, un contatto utile» – che le sono state proposte per il ricorso intentato adesso per la seconda volta. «Non ho intenzione di fare nulla del genere», garantisce.
Adesso passerà probabilmente un altro anno per il ricorso. Mesi in cui ci saranno da anticipare le spese legali e durante i quali Matteo dovrà ridurre la frequentazione della ludoteca o le attività con la specialista che lo segue. E, per compensare, la madre dovrà compensare tutto questo con gli sforzi personali ed economici di una donna sola, dipendente pubblico. Ma non sconfitta. «Ho visto troppo dolore e troppe ingiustizie».
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